L’educazione alla pace passa anche attraverso libri come “La guerra di Pietro” di Simona Pacini. Libri, cioè, che raccolgono documenti scritti e testimonianze orali di chi ha attraversato in prima persona le vicende belliche del proprio Paese (in questo caso il secondo conflitto mondiale), ha sentito nelle proprie narici l’odore della polvere da sparo e della morte (di conoscenti e di sconosciuti), ha visto il paesaggio – naturale, sentimentale – farsi ogni giorno più spoglio.
Finché la guerra, infatti, la si osserva dal punto di vista delle battaglie, delle ritirate degli eserciti, degli sbarchi, delle strategie militari, del rompersi e del costituirsi delle alleanze – in breve, di ciò che diviene Storia, diviene manuale scolastico –, c’è sempre il rischio che lo stupore dinanzi a certe imprese e l’ammirazione per alcune decisioni (dei generali, della diplomazia) faccia scivolare in secondo piano l’incessante vanire e svanire di cose e persone, che un conflitto provoca. Ma quando a balzare in primo piano è la serie infinita delle “opere e i giorni” che sono stati violentati, schiacciati, cancellati per sempre, di tutti quei quotidiani anonimi, comuni, familiari, nei quali ciascuno di noi si rispecchia e si riconosce, ecco che allora non può esserci spazio né per lo stupore né per l’ammirazione, bensì unicamente un’infinita pena.
Perché quel diciottenne fucilato senza neppure avere il tempo per recitare un’ultima preghiera, e la donna con la borsa della spesa in mano, fatta a pezzi dallo scoppio di una granata, ci parlano di quanto è accaduto a migliaia di persone, che non avrebbero desiderato nient’altro se non un’esistenza di pace, magari povera, magari banale, ma che fosse un’esistenza di pace e nella pace. Ogni soldato che uccide, questa è la drammatica verità, uccide anche tutti coloro che la vittima la stanno aspettando a casa e che non potranno più riabbracciarla: la morte azzera ogni distinzione tra militari e civili, tra campo di battaglia e abitazione domestica, e il dolore di chi sopravvive è peggiore dell’improvviso congedarsi dalla vita e dal mondo.
È anche per questo che dobbiamo essere grati a Simona Pacini, perché attraverso una narrazione basata su un’attenta opera di ricerca documentaria (a partire dalle lettere di Pietro Nencini, suo zio) e risolta, a livello di tono, in una nitidissima conversazione col lettore (come quelle che un tempo vedevano la famiglia riunita attorno a un falò e vicino al camino), ci restituisce l’immagine autentica della guerra in Toscana, in particolare nel Senese (il libro si interrompe al 4 novembre 1943), colta dal basso, che è la sola ottica che a me interessa quando si fa letteratura, letteratura di guerra. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale, dove a parlare è Pietro.
Nei capitoli successivi al narratore interno si alterna un narratore esterno (è qui che si incontrano anche bellissimi dialoghi, che riportano alla stagione del Neorealismo), e compaiono diverse lettere inviate dallo stesso Pietro, da Castiglioni Basso, ai confini tra colle di Val d’Elsa e Poggibonsi, ai suoi familiari.
“Mi chiamo Pietro e odio la guerra. Ma credetemi, avessi potuto ci sarei andato, eccome se ci sarei andato. Di corsa ci sarei andato a combattere. Tutto fuorché stare seduto su questa seggiola a chiacchierare con la gente che passa. O sul letto, o in ospedale. Di corsa nella mia vita, da una certa età in poi, non ho potuto più far nulla. Sono un bel ragazzo, così dicono, e io a volte mi sento anche forte. Ma con queste gambe di pasta frolla, ragazzi, e i piedi che mi si gonfiano ogni volta che faccio uno sforzo… Mi garbava lavorare, facevo il camionista. Ma ho dovuto lasciare. Mi garbavano le ragazze, meno male le ho potute guardare. Però mi accontento di quello che ho.
Che altro posso fare? Il mio non è un avversario leale, non ho nessuno con cui discutere e, nel caso, lottare. È inutile urlare, bestemmiare, lamentarsi. Il mio nemico è dentro di me, subdolo, invisibile. I medici non lo riconoscono. Non riescono nemmeno a dargli un nome. Sarà per colpa dei tempi. In Italia siamo isolati. Pare che all’estero vada meglio. Ma qui dobbiamo fare tutto noi e la medicina arriva dove può. Tanti tentativi, credetemi, e tutti andati a vuoto. Tutti sulla mia pelle. Le visite, le medicine, costose e introvabili, le diete, il riposo. Le speranze. Quelle sì che sono le ultime a morire. Ma a un certo punto se ne vanno anche loro”.
Simona Pacini, La guerra di Pietro, Europa Edizioni, Roma 2018
a cura di Francesco Ricci
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