È da pochi giorni in libreria la nuova raccolta poetica di Susanna Benigni, intitolata “Antologia del sentimento”, che esce a poco più di un anno di distanza dal precedente lavoro, “La venere arguta”. Quella che riporto è la prefazione che ho avuto il piacere di scrivere, mentre a Francesco Burroni si deve la postfazione. A seguire viene riportata una delle liriche che compongono il libro.
L’opera di Susanna Benigni è segnata da una scissione. Da un lato c’è salda in lei la convinzione che vasta, sconfinata, praticamente infinita sia la superficie della poesia e che, di conseguenza, tutto, ma proprio tutto, possa essere accolto nel suo grembo e qui strutturarsi, crescere, maturare, per poi da ultimo venire alla luce sotto forma di verso o di strofa. La vita letta (“lo scritto di un collega”) e la vita dolorosamente vissuta (“la notte insonne”), la vita presente (“la mano di un amico”) e la vita rammemorata (“un dolce ricordo”), costituiscono materia di ispirazione e fonti di canto, che generano una tonalità varia, oscillante tra un timbro cupo, amaro (“L’incontro col dolore / ha sempre il solito sapore”, “… è terribilmente difficile incontrare uno sguardo che comprende”) e un timbro più allegro, a tratti luminoso (“Piove l’incanto sulla terra esausta”, “Raggiante d’attesa / di nuovo suono scomposta”). Dall’altro lato, però, c’è la coscienza lacerata di Susanna Benigni, costantemente stretta fra il desiderio di viaggiare e il desiderio di rimanere – tra la strada e la casa, lo sconosciuto e il noto, l’apertura e la chiusura – i quali, nel loro altalenante e momentaneo prevalere, determinano, di fatto, una condizione di perenne oscillazione del soggetto (“Il mio posto nel mondo / è ritrovarmi sospesa / tra l’andare e il restare”). E dal momento che nessuna intenzione di poetica può mettere a tacere – occultandolo, coprendolo, cancellandolo – quello che è il modo concreto di essere del poeta-uomo, vale a dire la sua maniera di abitare il mondo, il risultato finale è che la vastità dell’area del poetabile, teoricamente dichiarata, nei fatti è sottoposta a un processo di selezione, che finisce con l’isolare alcuni temi, i quali appaiono i più congeniali a riflettere lo stato di fluttuazione dell’io lirico, che a volte può condurre anche a una situazione bloccata di quest’ultimo, il quale, incapace di scegliere, sprofonda in una sorta di immobilità, di gelida stasi.
Tra questi temi ne segnalo almeno quattro: l’amore, l’eros, l’assenza, gli animali. Tutti temi, questi, che, a eccezione di quello dell’assenza, nella Grecia antica sarebbero stati accolti all’interno del genere dell’epigramma, del quale Susanna Benigni conserva, sebbene sottotraccia, la sentenziosità, ma piega la brevitas in direzione di un componimento più ampio e spesso dotato di una facile cantabilità, che ricorda Umberto Saba e, in particolare, la sezione del Canzoniere intitolata “Preludio e fughe”. Tale cantabilità, però, sbaglieremmo a interpretarla come un semplice omaggio alla tradizione (quella che, per intenderci, conduce dal poeta triestino a Sandro Penna). Per quanto l’azione di tali modelli si faccia sentire, la parola risolta in canto – leggero, aereo, impalpabile – possiede un significato ben più profondo, che è quello di esprimere il sogno di esistenza del poeta.
Susanna Benigni, infatti, conosce bene la pesantezza del vivere, con le sue zone d’ombra, i vuoti, le promesse mancate, gli errori, i sensi di colpa, i rimpianti, il vanire e lo svanire di persone e di cose. L’amore, nella sua accezione di significato più ampia, il desiderio fisico, l’assenza, reale e simbolica, gli animali domestici – “i sereni animali / che avvicinano a Dio” di Umberto Saba – costituiscono allora altrettante esperienze e presenze sulle quali il poeta può misurare e verificare l’oscillazione della propria coscienza scissa, ora serena, appagata, felice, ora dolente, insoddisfatta, disperata, ma sempre consapevole che alla fine i conti con la vita sono sempre conti in rosso. Perché certi amori non si scordano mai, perché la pelle e la bocca di una persona sanno mancare non meno delle sue parole, perché l’immagine del muso del nostro gatto o del nostro cane continua ad attraversare le notti e a rattristare i giorni, confermandoci nell’idea che nulla dura, nulla permane. E tuttavia non sono sufficienti le amare conclusioni che l’attraversamento della realtà suggerisce, e che la ragione conferma, a mettere a tacere in Susanna Benigni la fiducia nella possibilità di godere di un’esistenza diversa, serena se non proprio felice, nella quale il desiderio e l’appagamento non siano parole destinate a escludersi reciprocamente e per sempre. Ecco, la levitas di tanti versi della presente raccolta assolve, in primo luogo, il compito di dare forma all’aspirazione del poeta a una vita nutrita di sole, di volo, di superficie, di presente, di sensi, di carnalità, di note che incantano, trascorrono, si perdono senza procurare dolore, ma rendendo ogni mondo individuale una distesa di luce e di gioia.
“Mi sei rimasto sulle labbra”
Il tuo cuore
mi è rimasto sulle labbra
scarne e asciutte
senza sapore.
Raschio in penombra
la morbidezza che resta
scivola il rumore
nelle nefaste aurore.
Scrollati di dosso
solerte malfattore
hai giocato male l’asso
e il mio ricordo è solo un lusso.
Susanna Benigni, Antologia del sentimento, Le Mezzelane, Santa Maria Nuova, 2019
A cura di Francesco Ricci
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