Tommaso De Sando, Scene da una memoria

Alessandro Pagani, Io mi libro, 96 Rue De La Fontaine, Torino 2018

“Scene da una memoria”, l’interessantissimo libro di Tommaso De Sando, è un libro che viene da molto lontano e va molto lontano. Viene da lontano in senso cronologico, dal momento che questa storia di sangue e di esistenze deragliate riconduce, come è ricordato anche nella dedica (“Ai miei amici Alessandro e Filippo che diciotto anni fa mi raccontarono questa storia”), nei suoi snodi fondamentali, indietro nel tempo. 

Va lontano in senso conoscitivo, poiché tanto a livello di struttura quanto a livello di soluzione (disvelamento) del caso giudiziario – l’uccisione con due colpi di pistola di una giovane donna di nome Victoria – ritaglia uno spazio decisivo a quella dimensione della mente umana, dove la logica consueta (quella che Matte Blanco chiama “logica asimmetrica”) non vale e dove i mostri, i complessi irrisolti, i traumi infantili convivono gli unni accanto agli altri. E cosa più dell’inconscio appare all’uomo comune remoto da sé (e dunque lontano), quando non addirittura estraneo? La complicata ricostruzione di cosa sia accaduto esattamente un venerdì sera nel monolocale di Canessa (nome di città inventato) dove, il mattino successivo, è stato rinvenuto il cadavere di Victoria, e il ruolo che ha avuto il fidanzato Nicholas Laudomia (è stato lui, ubriaco, a ucciderla?) è affidata, con felice intuizione artistica, all’impianto complessivo del romanzo non meno che al plot. I sei capitoli, infatti, si aprono con una citazione tratta da una canzone (King Crimson, Tom Waits, Neil Young, Steve Harley, Pink Floyd, Bruce Springsteen), che ha la funzione principale di suggerire una tonalità, sono accompagnati da quattro interludi (distribuiti nell’arco temporale che va da martedì 24 novembre 2020 a giovedì 26 novembre), contengono sette estratti di verbale d’interrogatorio. 

Frequenti, inoltre, appaiono le analessi e le prolessi. Se ciò può determinare un rallentamento nella lettura, dal momento che spezza la linearità del racconto, riesce, però, a riprodurre con grande efficacia quanto accade nel sottosuolo – metafora carissima a Dostoevskij – dell’anima di Nicholas (dove la logica aristotelica non vige e dove la temporalità è multipla), non meno che in quella degli altri personaggi principali. Insomma, senza rinunciare a rappresentare la realtà fenomenica, e dunque anche la vita sociale della contemporaneità (alcune scene ambientate in periferia, tra fabbriche abbandonate, fondi anonimi, magazzini incolori, trasudano realismo: d’altra parte, la confidenza dell’autore col linguaggio e con la tecnica cinematografica traspare in ogni pagina), Tommaso De Sando devia costantemente il proprio sguardo alla vita intima dell’uomo, in particolare alle sue zone selvagge e oscure.  Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale del romanzo.     

“Sebbene la febbre del figlio fosse calata a 37.1 già la sera prima, Giovanni temeva per una ricaduta, così, all’alba di quel freddo giorno di novembre, si raccomandò più di una volta al padre Gianpaolo di badare a Lorenzo – sette anni e tre quarti, come ripeteva sempre a chi gli chiedeva quanti anni avesse – mentre lui sarebbe andato alla fiera a montare la sua bancarella. “Niente scuola oggi, ma controlla che faccia i compiti”, gli ripeté due volte, la seconda quasi urlando, mentre constatava che la sordità del padre ottantenne stava peggiorando. Gianpaolo assentì. “E non farlo andare dalle bestie che sono ancora agitate per quel cazzo di tempesta”. Giovanni ne aveva sempre avute tante di bestie: in tutto aveva sei mucche, tre capre, due cavalli (un maschio e una femmina), una decina di maiali e ovviamente Nerone, il pastore tedesco. “Tanta merda da spalare” diceva a Lorenzo quando andavano insieme alle stalle “ma non cambierei questa vita neanche per tutti i soldi di Re Salomone, dico bene, Lorenzo?”. E Lorenzo rideva sempre a questa battuta anche se non aveva proprio la minima idea di chi fosse questo Re Salomone, quanto alla merda a cui si riferiva il padre, be’, quella era fin troppo evidente. E poi Lorenzo rideva soprattutto perché era una delle tante occasioni in cui il padre usava una di quelle parole riservate agli adulti, come merda, cazzo, fanculo e stronzo”.

 

Tommaso De Sando, Scene da una memoria, Betti, Siena 2020