Con “Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922” Gabriele Maccianti , dopo anni di meticolose ricerche, offre finalmente una ricerca di ampio respiro e sorvegliato equilibrio del drammatico quadriennio che sfocò nell’instaurazione della dittatura fascista. Maccianti ha vagliato fonti di ogni genere in archivi pubblici, a partire dall’Archivio Centrale dello Stato, e privati, ha esaminato pubblicistica, opuscoli di propaganda e stampa quotidiana, ha selezionato una serie di calzanti e dimostrative immagini. Il materiale conservato dalla Biblioteca Comunale è stato fondamentale come la collaborazione prestata. Il volume si apre con un’antologia di foto di Fabio Bargagli Petrucci e di Serafino D’Antona che documentano momenti delle operazioni militari lungo l’Isonzo o colonne in ritirata dopo lo sfondamento di Caporetto.
Quasi come sottofondo ai titoli di testa di un film quelle poche eloquenti fotografie stabiliscono l’origine del racconto. La Grande Guerra suscitò aspettative smisurate. Chi aveva vissuto la terribile avventura si sentiva legittimato a battersi per una società ben diversa da quella giolittiana. Gli interventisti democratici avevano interpretato il conflitto come l’atto finale del Risorgimento. I combattenti più sensibili all’orgoglio nazionale avvertivano l’inadeguatezza dei risultati rispetto agli immensi sacrifici subiti: e consideravano mutila la vittoria. Chi s’era battuto per la neutralità cercava di incassare i frutti del malcontento. L’atroce scontro all’ultimo sangue aveva originato inimicizie destinate ad alimentare una lunga “guerra civile europea”. La violenza era stata sdoganata quale strumento di lotta. Dilagava ovunque una “brutalizzazione della vita politica post-bellica” (George L. Mosse) che contagiava tutti. L’autore mostra di saper bene che una “storia locale” rischia di esaurirsi in una sequenza di aneddoti più o meno saporosi o di dar luogo a semplificanti paradigmi se non se ne mettono in luce i legami con apporti neppur soltanto nazionali, se non se ne individuano le peculiarità, slargandone per quanto necessario i limiti per esaminare le turbolenze prossime, e influssi, innesti, incursioni.
Il Fascio si costituisce a Siena il 2 ottobre 1919, inquadrando uno sparuto gruppetto di quindici entusiasti egemonizzati da uno studente di Legge, Manlio Ciliberti, che cederà presto la guida a più smaniosi protagonisti. Il vecchio ceto dirigente liberale si disgrega. Era l’ora dei partiti di massa. L’avanzata della sinistra alle amministrative del 1920 fa scattare la Grande Paura. L’aristocrazia terriera e l’alta borghesia si sentono minacciate nei loro privilegi. Impressionante la catena di eccidi e sanguinosi scontri, da Abbadia a Empoli, da Grosseto a Siena: dove la devastazione della Casa del Popolo di via Pianigiani, nel 1921, rappresenta anche simbolicamente il culmine di un’offensiva sostenuta o tollerata dagli apparati dello Stato. Maccianti ricostruisce episodio per episodio: strategie, contraccolpi, vendette. E sottoscrive il giudizio di Pietro Nenni: ad “una rivoluzione di parole” si rispose con “una controrivoluzione di sangue”. Solo nel senese muoiono, vittime delle violenze, trenta uomini. Può urtare precisare le appartenenze. Ma significherà pure qualcosa che solo uno dei caduti indossasse la camicia nera. Il triste elenco annovera quindi un religioso, un carabiniere, un comunista, un popolare. I militanti socialisti sono diciannove.
Roberto Barzanti