Un amore mai dichiarato, nascosto, rimasto tra le pieghe di un giornale scolastico.
Quando la porta si aprì ed entrasti in classe, annunciato a gran voce dalla professoressa, qualche ragazza trattenne il fiato, e con il senno di poi avevano ben ragione di farlo. Avevi indossato il tuo miglior sguardo, quello che non lascia spazio all’imbarazzo, quello più caloroso, con una luce fastidiosa che indicava un’antica monelleria non ancora sparita. Parlasti di come ti eri trasferito, e qualcuno, ora non ricordo nemmeno chi, ti chiese il motivo preciso. Rispondesti che tuo padre ti aveva portato nella nostra città per ragioni di lavoro. Pendevo dalle tue labbra; probabilmente, esse erano la cosa migliore.
Sottili, sì, ma parevano così soffici. In special modo quando, chissà per quale oscura ragione, sorridesti al mondo, e quindi anche a me. Non avrei mai scoperto il sapore delle tue labbra, in ogni caso, era inutile appoggiarci lo sguardo e sognarci sopra. Ma lo facevo, gli umani impazziscono per ciò che non possono avere dalla loro nascita. E disgraziatamente, sono un’esponente del genere umano.
Non sbagliavi mai un movimento, eri un’orchestra di un metro e ottantasei perfetta e armonica. Ti sedesti al primo banco, proprio davanti alla cattedra, giacché era l’unico posto libero rimasto, ed entro la fine dell’ora, dalla mia postazione quasi nascosta, già conoscevo il tuo abbigliamento a menadito. Il mio sguardo, senza volerlo, s’era perso tra i tuoi corti capelli ricci, indomabili, tra le vene quasi invisibili del collo di un rosa pallido e tra le sfumature nere e rosse della tua camicia a quadri. Ed avevo concluso che sì, eri bello. Sessanta minuti per arrivare ad una conclusione del genere – chissà quanto ci avrei messo a comprendere il tuo animo.
I minuti lasciavano posto alle ore, ed esse ai giorni, e questi ultimi alle settimane e ai mesi, con assoluta pigrizia. La quotidianità stessa iniziò ad essere lenta, eppure ero felice, perché a tuo modo vi appartenevi. Non parlavamo molto, non parlavamo affatto, anzi ; mi ignoravi, come se fossi di un altro pianeta, e forse lo ero. Come se ci fosse l’oblio a dividerci. Dovevo distruggerlo, dovevo spazzare via le barriere, e c’era un solo luogo dove potevo rivolgerti la parola senza il desiderio di sprofondare per l’imbarazzo: l’aula dove si sviluppava il giornalino della scuola.
Lo frequentavamo entrambi, a volte il destino aiuta. Dopo sette estenuanti mesi di speranza, finalmente ci misero a lavorare ad un articolo in coppia ; ricordo perfino l’enfasi della tua voce, quando dicesti: «Inizia tu a scrivere»
Eseguii, annuendo. Eri un bravo t9, decisi: correggevi senza alterare il significato delle frasi. Qualcosa la scrivesti, perché eri davvero esperto a trovare delle conclusioni avvincenti, e visto che il grosso del lavoro l’avevo fatto io, ti offristi di cercare delle foto per documentare l’articolo. Non avevo mai passato così tanto tempo a contatto con un ragazzo che non fosse un mio parente, addirittura scoprii che amavi sorridermi. Perché, diamine, lo facevi sempre, per tutta la durata della conversazione. Forse ti si erano bloccati i muscoli, eppure non potevo non arrossire di fronte a quel brillio nei tuoi occhi, e ai tuoi denti candidi. Mi sentivo come se una palla di fuoco mi avesse colpita per ricordarmi che sì, dopotutto valevo qualcosa.
«Mio padre ha detto che la felicità ha un prezzo – e che per raggiungerla, il nostro scotto da pagare è trasferirci di nuovo. Certo, c’è nuovamente il lavoro dietro tutto ciò, come unico reale motivo, ma credo che abbia ragione». Terminasti la tua pseudo – conferenza, approfittando dell’ultima assemblea di classe per alzarti e dire, in poche parole, che sloggiavi. Trattenni le lacrime, le grida, la rabbia, semplicemente annuii come un automa. Il mio cuore era stato appena lanciato tra le fiamme degli Inferi, quelli che avevamo studiato. E quando chiesi per scoprire dove abitavi, quando saltai su in bicicletta, ripetendomi di fare presto, era già troppo tardi. All’indirizzo, trovai soltanto lo smog della tua macchina, che si andava allontanando sempre di più. Vidi i tuoi capelli scarmigliati, una chioma che non avrei mai accarezzato. Poi, incurante dei vicini che spiavano da dietro le loro tende a fantasia, piansi, e gridai, e presi a pugni il tuo stupido muretto di cinta.
Avevo sempre fatto le scelte sbagliate, nella mia vita, dalle cose più stupide come un paio di scarpe di marca che poi facevano male, fino alla scelta della scuola che non mi stimolava più di tanto ma che non potevo cambiare. Scelsi di innamorarmi di te, e anche quella volta mi sbagliai.
Clorinda Adinolfi