C’è qualcosa di strutturalmente caotico nel primo volume di “La musica suonata, ascoltata e ballata in cinquant’anni a Siena e provincia”, un progetto ideato e coordinato da Massimo Biliorsi. Manca l’indice, manca il numero delle pagine, il racconto memoriale del curatore (“Tutto cominciò con una rassicurante raccomandazione della mamma”) è di continuo spezzato da approfondimenti relativi ai complessi più importanti del momento (ad esempio, I Delfini), dalla cronologia, anno per anno, di concerti e manifestazioni canore tenutesi a Siena e nelle terre di Siena (si pensi, nel giugno del 1962, al Cantagiro, presentato da Enrico Maria Salerno e Walter Chiari), da sintetiche schede dedicate a dischi e interpreti (Umberto Bindi, “Le cose dell’amore” di Gino Paoli, “Baci” di Remo Germani, Gianni Morandi, “Non è facile avere 18 anni” di Rita Pavone, I Giganti, “Cento giorni” di Caterina Caselli), da immagini e fotografie che offrono preziosa testimonianza dei mutamenti intervenuti nei costumi e nei consumi (estremamente rivelatore è, a tale riguardo, il linguaggio pubblicitario) degli italiani nel corso negli anni compresi tra il 1960 e il 1966.
A tale asistematicità occorre aggiungere anche il continuo movimento, che il lettore è invitato ad assecondare, da Siena (dall’Italia) all’Inghilterra, agli Stati Uniti, che disegna un percorso in cui le tappe sono costituite dalla produzione di Carosone, Peppino di Capri e i suoi Rockers, i Rolling Stones, Joan Baez, i Beach Boys, Edoardo Vianello, i Beatles, Mauro Lusini, I Delfini, Adriano Celentano. Sì, c’è qualcosa di – mi si perdoni l’ossimoro – “strutturalmente caotico”. Se, però, non si rimane fermi alla prima impressione, se, cioè, si riprende in mano il volume, lo si scorre, lo si rilegge, lo si guarda (curatissima, peraltro, risulta la scelta del materiale iconografico), ecco che progressivamente l’effetto di dissipazione e di disordine si attenua, fin quasi a scomparire. Collegamenti tematici, visivi, perfino cromatici, cominciano a mostrarsi in filigrana e, nel mostrarsi, a rivelare la geniale operazione portata avanti da Biliorsi e dai suoi collaboratori. Ciò che il curatore, infatti, a mio avviso, ha inteso scrivere con “La musica suonata, ascoltata e ballata in cinquant’anni a Siena e provincia” non è né una semplice storia della canzone né una semplice storia del costume italiano, colto e mostrato nella sua rapida trasformazione (nel giro di quindici anni, notava con rammarico Pier Paolo Pasolini, tutto cambiò e cambiò per sempre). Piuttosto, il testo si configura come la ricostruzione sentimentale ed emotiva di una stagione della vita della nostra città e del nostro Paese oramai irrimediabilmente lontana.
Cosa intendo dire impiegando gli aggettivi “sentimentale” ed “emotiva”? Intendo dire che Biliorsi riesce a restituire le impressioni, le sensazioni, gli stati d’animo che i giovani di allora provarono dinanzi a fenomeni come il beat e come il rock, la sostituzione dei complessi alle orchestre, la crescita del mercato discografico, la minigonna, la televisione, fumetti come Linus e come Diabolik. Un concorso di elementi che lì per lì suscitarono sorpresa, entusiasmo, in certuni perfino apprensione: c’era una ventata d’aria nuova, ma fino a quando quell’aria spirava, la si poteva solamente ricevere sul volto (o provare a ripararsi da essa), non analizzarla, non razionalizzarla e, di conseguenza, capirla. Ciò sarebbe stato possibile solamente molto più tardi, quando il distanziamento temporale, donando lucidità di sguardo e liberando dal coinvolgimento emotivo, avrebbe consentito di “fare la storia” degli anni Sessanta. Ecco, Biliorsi è riuscito – e vi è riuscito grazie anche al ricorso a un impianto che, per essere volutamente privo di un ordine chiaro, stringente ed esibito, potremmo chiamare per comodità impianto “a caldo” – nel prodigio di parlare allo stesso tempo di come lui (e con lui tantissimi giovani) visse quella nuova stagione della musica a Siena, e di come la ricorda e la legge oggi, oggi che tutti, ma proprio tutti, riascoltando certe canzoni e certi gruppi, ci sentiamo dei sopravvissuti. Il passo che segue è tratto dall’ideale prefazione, intitolata “L’abito non fa il beatnik”.
“’L’abito non fa il beatnik / È inutile che vesti male / E dormi sulle scale / Il beatnik lo fai male // L’abito non fa il beatnik / E se il beatnik tu non sai cos’è / Non vedi gli altri fare / Anche se tu vuoi provare / Se domani cambierà moda / Anche tu cambierai / Non saprai di cosa si tratta ma tu lo seguirai’. I versi della longilinea Evy, altro brano-cover ripreso dal mondo anglosassone nel 1966, ci permettono di iniziare un lungo e composito viaggio nel tempo che in questo capitolo esaminerà la musica di Siena, e non solo, del decennio sessanta. Sì è vero, sono anni segnati da molte piccole, talvolta silenziose, rivoluzioni. Una mano la darà anche la musica a tutti quei ragazzi che credevano davvero se non in un mondo migliore perlomeno in un avvenire diverso, fatto anche per loro. Forse furono capiti solo dalla nascente industria per “teenagers”, già la parola chiudeva un’età fra i 13 e i 19 anni, che comprendeva anche le canzoni ma tanti altri oggetti da consumare, alcuni oggi di culto. Tutto era nuovo e stuzzicante. Il beat è una stagione centrale che poi sfocerà in altri cento rivoli negli anni settanta, dove il rock è destinato a continui mutamenti, anche ad un rigore politico di riappropriazione di certi spazi, movimenti talvolta eccessivi, devianti ma che segnarono la vita di alcune generazioni. Per essere veramente beatnik, dice la canzone tradotta “all’italiana” da Maurizio Vandelli dell’Equipe 84, si deve andare oltre la filosofia spicciola dei vestiti, dei capelli e dello scooter. Si deve essere davvero contro certi passati atteggiamenti, aver letto e condiviso certi filosofi “on the road”, Jack Kerouac in testa, aver contribuito a certe rotture con l’imperante stile di vita”
AA.VV., La musica suonata, ascoltata e ballata in cinquant’anni a Siena e provincia, il Leccio, Siena 2021
a cura di Francesco Ricci