Poco meno di un mese fa, leggiamo nelle cronache che dopo un interrogatorio durato otto ore, l’ex fidanzato di Sara Di Pietrantonio ha confessato l’atrocità del suo gesto: bruciare viva, in una strada della periferia romana, la ragazza, studentessa di 22 anni, che sosteneva di amare. Lui, guardia giurata di 27 anni, l’ha rincorsa, lei ha chiesto aiuto ai passanti, ma questi hanno tirato dritto. Una morte atroce. Da quel giorno di fine maggio ad oggi, molte parole sono state spese per dare un senso, cercare un significato o quantomeno classificare l’efferato atto compiuto dall’ex fidanzato di Sara, che ha dichiarato di aver fatto ciò che ha fatto, a causa della gelosia. Forse però, troppe poche parole sono state scritte per spiegare il comportamento degli automobilisti che non si sono fermati e non hanno chiamato le forze dell’ordine, incuranti di ciò che stava avvenendo. Come è possibile spiegare questo comportamento apparentemente assurdo? Le orribili circostanze dell’omicidio di Sara, seppur perpetrato in differenti circostanze e con differenti modalità, richiama alla mente l’omicidio di Kitty Genovese, avvenuto nel Qeens di New York nel lontano 1964.
A che cosa mi sto riferendo? A una ventinovenne italo-americana che fu uccisa il 13 marzo 1964, mentre stava tornando a casa dopo aver chiuso il bar in cui lavorava. Il suo assassino l’accoltellò e si allontanò quando da una finestra, considerando che la scena stava avvenendo in un centro abitato, qualcuno rispose alle grida della donna urlando di lasciarla in pace…ma niente di più. Mentre la povera Kitty stava lottando contro la morte, l’uomo tornò indietro per accoltellarla nuovamente e rubarle il portafoglio, quindi mentre la ragazza era ormai agonizzante, la violentò. La durata complessiva dell’aggressione fu di circa mezz’ora. Kitty Genovese morì durante il tragitto in autoambulanza verso l’ospedale. Questo ormai datato episodio dette l’avvio ad una serie di ricerche in psicologia sociale volte a spiegare l’indifferenza dei passanti e il così detto “effetto spettatore”. Tra i primi, John Darley e Bibb Latané avviarono uno studio sperimentale, ricreando in laboratorio delle situazioni di emergenza.
I risultati, umanamente imbarazzanti, fecero emergere, tanto negli uomini quanto nelle donne, che la maggior parte dei partecipanti all’esperimento era soggetta a forti dinamiche situazionali che avevano ostacolato il comportamento di aiuto. Tra le variabili considerate, una delle più importanti sembrò essere la diffusione della responsabilità. In altre parole, le persone si sentono meno in dovere di intervenire se presenti altri potenziali soccorritori. Questa evidenza, rompe una delle più diffuse credenze radicate nella società, secondo cui, essere in difficoltà in posti affollati assicurerebbe una maggiore probabilità di ricevere aiuto. Altri studi si sono poi chiesti che cosa prova chi non ha soccorso una persona in pericolo sapendo che avrebbe potuto. Albert Bandura, per rispondere a questa domanda, ha individuato dei processi mentali volti a liberare l’essere umano dal senso di autocondanna. Questi possono essere considerati meccanismi psicologici difensivi quali la già menzionata diffusione della responsabilità, la distorsione delle conseguenze (non rendersi conto della gravità della situazione) e le attribuzioni di colpa (attribuire alla vittima la colpa del’accaduto, come ad esempio “se l’è cercata”).
Che cosa scatta invece nei soccorritori, spesso definiti eroi, che non restano indifferenti? In primis, come suggerito da Zimbardo, una tra le figure più autorevoli della psicologia sociale contemporanea, i così detti eroi sono minoranze che agiscono in modo opposto agli altri, intervenendo a favore della vittima. In questi individui la spinta ad aiutare qualcuno in difficoltà nasce spontaneamente dall’interno come espressione di principi interiorizzati di cura e di giustizia. La sintonizzazione con la vittima trasforma i suddetti principi in atteggiamenti e comportamenti prosociali. Sintonizzarsi con l’emozione provata dalla vittima, in altre parole, costituisce la motivazione primaria che, in questi casi, spinge all’azione: “non potevo fare altrimenti”, dicono spesso i soccorritori. Al di là del valore teorico di questi studi, le considerazioni che ne abbiamo tratto sono importanti per comprendere le motivazioni psicosociali del non agire di molti di fronte al pericolo di alcuni, comportamento spesso stigmatizzato come sintomo di indifferenza. Considerare e riflettere su questi aspetti inoltre, ancor più che comprendere, ci aiuta a contrastare questi fenomeni, in modo da indurci a aiutare il prossimo quando se presenterà l’occasione. Idealmente crediamo di essere ciò che pensiamo, ma in realtà siamo ciò che facciamo.
Dott. Jacopo Grisolaghi
Psicologo
Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica di Arezzo Sessuologo e Dottore di Ricerca in Psicologia