Con l’accelerazione impressa dai vertici della Banca sui tempi di esecuzione dell’aumento di capitale, Banca e Fondazione si trovano, per la prima volta, ad avere visioni completamente divergenti sulla soluzione del problema. Ovviamente il problema non è di poco conto, perché, se non gestito al meglio, potrebbe compromettere addirittura l’esistenza stessa della fondazione, provocando effetti disastrosi, guarda caso, ancora una volta, sulla collettività senese, già ampiamente saccheggiata dalla cattiva gestione della classe dirigente che ha amministrato nel precedente decennio.
Le difficoltà erano già emerse fin dall’ottobre 2012 con la delibera del noto aumento di capitale da un miliardo, ad oggi non eseguito, ma che, di fatto, sanciva la discesa della fondazione sotto al fatidico 33,5%, sentinella della senesità; si erano acuite recentemente con la pubblicazione dei diktat dell’Europa che aveva imposto un aumento di capitale da 3 miliardi, con obbligo di esecuzione nel corso del 2014. Su queste argomentazioni ho già scritto fin dalla primavera scorsa argomentando che la miglior soluzione, sarebbe stata l’exit strategy, soprattutto al fine di mettere in sicurezza la città (fondazione) con un tesoretto stimabile, allora sui 750 milioni, e che avrebbe permesso all’ente di erogare sul territorio di riferimento una quindicina di milioni l’anno. Fondamentalmente dicevo di vendere tutta o quasi la quota di BMPS detenuta dalla fondazione (33,5%), con l’obiettivo di valorizzare al massimo la percentuale di controllo al fine di ottenere un prezzo più alto rispetto ai valori borsistici; concetto espresso anche da eccellenze cittadine con tanto di articoli pubblicati sul sole 24 ore. In città su questa tematica c’è stato un dibattito che ha interessato tutte le formazioni politiche, le liste civiche, le associazioni di piccoli azionisti, la stampa locale ed i vari blog; purtroppo senza trovare unità, perché molti avrebbero auspicato che la fondazione conservasse il suo ruolo di azionista di riferimento, altri sarebbero stati inclini a che la fondazione vendesse solo la parte necessaria al pagamento del debito, altri ancora favorevoli a che vendesse quasi tutta la quota, altri, infine, favorevoli a vendere assolutamente tutta la partecipazione in BMPS. Ovviamente in un ambiente già teso, dove molti urlano senza proporre nulla di concreto, ma solo reclamando responsabilità, si sta sollevando troppa confusione e si rischia di perdere veramente il controllo della situazione, per questo, non intendo assolutamente disquisire sul fatto delle autonomie degli enti e sul comportamento tenuto dalle istituzioni locali. Per giudicare questi aspetti ci sarà tutto il tempo, una volta risolta la situazione che si è creata. Voglio solo dire che finora ero più ottimista perché il presidente Profumo, in ottobre, aveva rilasciato un’intervista al sole 24 ore che, a mio avviso, faceva intuire uno sviluppo positivo; mi sembrava di aver capito che riconoscesse di dover salvaguardare la fondazione, cito testualmente la domanda e la sua risposta “In caso di nazionalizzazione, la quota della Fondazione più o meno si azzererebbe. E l’ente resterebbe solo con i debiti. Nelle sue scelte, la banca terrà conto anche di questo? Per noi la priorità è di far quadrare il cerchio nell’interesse di tutti gli stakeholders, tra cui la Fondazione”. Inoltre avevo interpretato positivamente il piano programmatico della Mansi, perché rimettere in equilibrio la fondazione per poter tornare ad investire ed a diversificare gli investimenti, per me voleva dire semplicemente vendita della quota di BMPS e non vendita per il solo ripianamento del debito, altrimenti sarebbe difficile immaginare con quali denari avrebbe fatto le diversificazioni. Queste due interpretazioni mi avevano messo di buonumore. Purtroppo è durato troppo poco, ma ora occorre riunirci tutti, perché come ho sempre detto, su banca e fondazione non deve esserci alcuna distinzione fra destra e sinistra, ma ognuno deve dare contributi fattivi per individuare la miglior soluzione.
Allora, cosa dovrebbe fare a questo punto la Fondazione? Decide di votare contro e sfiducia il management? Quale potrebbe essere la conseguenza di questa decisione? Il management dovrebbe andarsene a casa ed il valore del titolo, probabilmente scenderebbe sotto il livello di escussione (0,1287 €) ed alla fondazione resterebbero gli spiccioli. Così, anche senza approfondire, l’ipotesi non mi sembrerebbe gran che. Un’altra soluzione possibile potrebbe vedere la fondazione vendere a pezzi, parte delle quote nei pochi giorni rimasti, questo comporterebbe probabilmente una svendita, invece di ottenere un prezzo più alto, potrebbe doversi accontentare di un prezzo di mercato, se non addirittura meno, come già palesato da alcuni hedge fund. D’altronde con un aumento incombente dove si potranno comprare diritti (titoli) a sconto ed in quantità industriali visto anche l’inoptato presunto, mi sembrerebbe difficile che uno o più acquirenti di quote minoritarie decidessero di investire prima dell’aumento di capitale, se non a prezzi ritenuti comunque appetibili. L’ultima soluzione che intravedo, prevede che la Mansi trovi un gruppo che acquisisca tutta o quasi tutta la quota, ad un prezzo maggiore di quello di mercato, spinto dal rilevare il controllo di una banca che è pur sempre il terzo gruppo bancario italiano, che ha un personale eccezionale e attaccatissimo al brand, che ha incorporato un vantaggio fiscale enorme, e che fino al noto sciagurato acquisto, era un fiore all’occhiello del sistema bancario mondiale e che ha ancora potenzialità enormi. Devo essere ottimista e tifare per questa soluzione.
Siccome ritengo che la storia debba insegnare qualcosa, vorrei raccontarvi brevemente l’aumento di capitale che Unicredit fece a cavallo fra il 2011 ed il 2012, precisando per dovere di cronaca che Profumo, nel periodo indicato, non faceva più parte del management della banca. Aggiungo che la lettura di questa operazione può servire a far capire meglio quali rischi potrebbe correre la fondazione. Ecco come andarono le cose: il 27.12.2011sono state accorpate le azioni col rapporto di 10 a 1 ed in quel giorno il titolo chiuse a 6,47 € non registrando particolari variazioni per l’operazione di accorpamento. L’aumento vero e proprio parte il 9.1.2012. Ebbene, il titolo dai 6,47€ del 27.12.2011, in sole 8 sedute di borsa, arriva al 6.1.2012, ultimo giorno di quotazione piena, a segnare 3,92€ registrando una perdita di circa il 40%. Ovviamente ogni storia è unica, pensate cosa potrebbe capitare se per l’aumento di BMPS succedesse una cosa simile.
Tornando a noi, le azioni saranno accorpate nella misura di 1 a 100, questo vuol dire che ogni 100 azioni, ne saranno date una e, presumibilmente, pochi giorni dopo questa operazione, partirà l’aumento di capitale vero e proprio ed ogni azionista potrà sottoscrivere l’aumento integralmente, parzialmente o per niente. Nello specifico l’aumento di 3 miliardi, impone di incassare circa 25,7€ per ogni azione nuova (accorpata), indipendentemente dal valore che la stessa avrà al momento dell’aumento (oggi 29.11, tale valore sarebbe 18,68€). Ora escludiamo le ipotesi di escussione del pegno e di acquisizione dell’intera quota della fondazione, per le quali ovviamente non serve spiegare altro e concentriamoci, invece, sull’ipotesi di vendita a pezzi, delle quote, fino ad un importo pari al debito preesistente (350 milioni). Per questo caso supponiamo che la fondazione venda ad un prezzo medio di 0,18€, le quote strettamente necessarie per ottenere la copertura del debito; la percentuale posseduta passerebbe quindi dal 33,5% al 16,8% ed il valore residuo, ovviamente ipotizzando lo stesso prezzo di 0,18€ per azione, sarebbe intorno a 353 milioni di euro. In questo caso come potrebbe trovarsi la fondazione dopo l’aumento di capitale? a questo proposito è opportuno precisare ulteriormente che sto parlando di ipotesi puramente teoriche, perché ovviamente fino al giorno precedente l’inizio dell’aumento, non possiamo disporre del prezzo teorico optato (prezzo rilevato l’ultimo giorno prima dell’aumento) e perché ad oggi, non sappiamo neppure il numero di azioni nuove offerte per ogni azione vecchia. Fatte queste precisazioni mi spingerei ad ipotizzare due ipotesi di aumento: la prima vedrebbe la banca offrire 10 azioni nuove ogni una vecchia, mentre la seconda vedrebbe un’offerta di 5 azioni nuove per ogni vecchia. Posso sviluppare queste due ipotesi considerando preliminarmente che la fondazione decida di non sottoscrivere per niente l’aumento. Questo porterebbe automaticamente la quota percentuale detenuta dalla fondazione dopo l’aumento, rispettivamente all’1,5% circa e al 2,8% circa, di BMPS. Ovviamente in entrambi i casi la fondazione dovrebbe cedere valanghe di diritti e questo è a mio avviso il vero problema su cui si deve trovare la quadra, perchè si rischia di restare con un pugno di mosche. Ma Profumo e Mansi sanno benissimo di cosa stiamo parlando e sono obbligati a risolverlo per il bene della collettività. In termini economici nello sviluppo di quanto ho esposto, senza tediarvi ulteriormente in calcoli, la fondazione potrebbe incassare, rispettivamente, intorno a 275 milioni di euro o intorno a 210 milioni di euro. Ovviamente sommando i diritti ed i valori teorici delle azioni rimaste in possesso nelle due ipotesi, si ricade in entrambi i casi ai circa 353 milioni di partenza. All’interno di questi numeri, la fondazione potrebbe anche decidere la posizione finale desiderata in termini di quota azionaria e liquidità, semplicemente vendendo e sottoscrivendo le quote desiderate.
La parte di più difficile comprensione è terminata, penso di aver reso l’idea dei passaggi importanti e necessari da oggi alla fine dell’aumento. Un approfondimento per spiegare perché ho considerato le due ipotesi di aumento da 10 e da 5 nuove azioni, da assegnare per ogni 1 vecchia azione accorpata: l’aumento di capitale a cui ci accingiamo dovrà necessariamente prevedere l’emissione di molte azioni nuove per ogni vecchia posseduta, vuoi perché preliminarmente è stato deciso un accorpamento massiccio, vuoi perchè le nuove azioni devono essere convenienti rispetto alle vecchie possedute, altrimenti l’investitore non ha interesse alla sottoscrizione. Infatti in fase di aumento la maggior preoccupazione del management deve essere di evitare che il prezzo di emissione superi quello di mercato, per questo è prassi comune fissare il prezzo di emissione a forte sconto rispetto al mercato, anche considerando che la diluizione delle quote azionarie già possedute dagli azionisti, non comporta la diminuzione della loro ricchezza, ove compensata dal valore dei diritti d’opzione.
Vorrei aggiungere che ho sentito la necessità di scrivere questo articolo perché stanno girando numeri ed ipotesi che non sono assolutamente suffragati da nulla, nemmeno di teorico, e siccome sono un pragmatico e voglio bene a questa città sto cercando di mettere a disposizione di tutti, quello che posso, per far comprendere al meglio certe dinamiche, che per i non addetti ai lavori possono essere molto ostiche.
Concludendo, l’accelerazione dei tempi per l’esecuzione dell’aumento di capitale, qualora la fondazione non abbia ancora trovato uno o più acquirenti a cui vendere le quote che ha deciso di alienare, costituisce un rischio elevato perché si troverebbe in condizione di dover vendere in pochissimo tempo e se i corsi azionari dovessero girare ulteriormente in negativo, la vendita diventerebbe obbligatoria e potrebbe interessare gran parte del pacchetto detenuto per scongiurare l’escussione del pegno (0,1287€). L’altro punto critico si può ravvisare nella gestione dell’aumento di capitale, ma in questo caso credo che avendo davanti fior di professionisti si sia pensato, in qualche modo, a bloccare un prezzo minimo al quale il consorzio di collocamento è obbligato a comprare i diritti o, meglio ancora, si sia già trovato i compratori per i diritti, magari al prezzo teorico che si determina l’ultimo giorno prima dell’inizio dell’aumento.
Per dovere di cronaca, Unicredit, dopo il disastro descritto, si è ripresa ed ha più che triplicato la capitalizzazione, ma come avrete capito, la storia non sempre si ripete.
Giorgio Finucci