foto di Geraint Rowland
Siamo abitati da mancanze e da assenze. Forse è per questo che alla fine ogni nostro sentimento si converte in nostalgia, forse è per questo che è così difficile pronunciare la parola “ritorno” senza venire assaliti dalla tristezza. Crescere, infatti, significa smarrire volti, illusioni, angoli di città, frammenti di cielo, amori. A volte succede che li ritroviamo (che ritornino), più spesso che li perdiamo per sempre (che non ritornino). Si scrive anche per questo, per salvare, riversandolo sulla pagina, ciò che è trascorso, ciò che ha avuto luogo. Certo, l’invenzione artistica sottrae spazio ai fatti realmente accaduti, uomini, donne, ambienti vengono reinventati e trasfigurati dallo scrittore (altrimenti, come sapeva bene Manzoni, si avrebbe un semplice documento storico). Ma il romanzo – almeno il romanzo che interessa a me – conserva sempre un legame, più o meno stretto, più o meno visibile, con la vita e con il vissuto. E’ quanto avviene anche in Vanezio con la V di Barbara Cucini, dove le vicende che hanno come protagonista un bambino, abbandonato l’ultimo giorno dell’anno (il 31 dicembre del 1973) sulle scale di Santa Maria in Provenzano, raccolto dalle suore e cresciuto tra le strade e le piazze del centro di Siena, lasciano intravedere una stagione dell’esistenza (e uno sguardo su quella stagione) che appartiene prima di tutto alla scrittrice, la quale ci regala una sorta di moderno “lessico familiare”:
“Assunta, da sola, aveva aiutato Giulia a partorire. In quel caldissimo sabato notte alla fine di maggio. Lei aveva chiesto a Giulia di aspettare a dare un nome al bambino, tanto nessuno, per il momento, avrebbe dovuto sapere che qua ce stéva ‘no criaturo. La situazione era complicata, la nascita doveva restare nascosta finché gli eventi non ne avessero consentito una soluzione. Ma il motivo, per Sunta, era un altro. Era quel sogno, fatto la notte precedente la nascita di Vanezio. Che annunciava l’arrivo di un’anima speciale, un’anima destinata a trovare la sua via fra mille sofferenze. Inimmaginabili e non sue. Quel bambino senza un nome era anche figlio suo, di Sunta, della sarta, d’a’ janara. Ma lei come poteva fare adesso? Latte di capra ne avrebbe trovato, un nome, un nome glielo avrebbe dato. Cosa aveva detto Giulia quel giorno? Come lo voleva chiamare il suo bambino? Il piccolino aveva due mesi e mezzo. In quel periodo Giulia era molto depressa, gli unici momenti in cui balenava la vita nel suo sguardo spento era quando stava col bambino e lo allattava. Quella mattina Sunta l’aveva dovuta trattare bruscamente perché uscisse a fare le solite commissioni. Erano giorni di palio, la città era in subbuglio, c’era gente in giro, tanta gente. Giulia sarebbe rimasta proprio per questo volentieri a bottega, la folla la frastornava, le dava angoscia. Quando rientrò, Sunta rimase sorpresa. Per la prima volta il viso di Giulia era disteso, gli occhi accesi, c’era un’energia nuova in lei. – Ho trovato il nome per il piccolo – le disse – Panezio -. Ma Sunta si perse la p per strada, ma che nome strambo era quello? Vanesio, le venne in mente questa parola, la vera colpevole del cambio di consonante iniziale. Non più la p di padre, ma la v di vento”.
A cura di Francesco Ricci
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