“Racconti sparsi”, il titolo del libro fresco di stampa di Jacopo Bartolini, deve essere interpetrato, a mio avviso, come una sintesi dell’esametro oraziano “Invenias etiam disiecti membra poetae” (“non trovi più le membra sparse del poeta fatto a brani”), appartenente al primo libro delle “Satire”. Infatti, i brevissimi racconti, distribuiti in due sezioni (“Racconti castiglionesi” e “Racconti senesi”), altro non sono che frammenti della vita dell’autore, amorevolmente recuperati dallo scrigno della memoria e affidati alla pagina, perché questa li conservi e magari ne rinvenga anche un possibile significato. Solamente la scrittura, infatti, è in grado di farlo.
Finché siamo immersi dentro la trama dei giorni che si succedono, finché siamo protagonisti o testimoni di episodi grandi e piccoli, è difficile scorgere in quello che ci accade un senso, una direzione, una spiegazione. Occorre distanziare quei giorni e quegli episodi da noi, cosa che solamente il tempo, il raccoglimento, lo scrivere consentono di fare. A quel punto, può accadere che i frammenti sparsi delle nostre esistenze, una volta divenuti narrazione, disegnino il profilo unitario e coerente di una persona, o che, riprendendo l’immagine oraziona, le membra sparse si rivelino, a un esame attento, appartenere a un unico soggetto, vale a dire lo scrittore. È quanto avviene con il libro di Jacopo Bartolini. Un libro marcatamente, squisitamente, perfino spudoratamente autobiografico, a tal punto ridotta risulta essere la distanza tra il narratore interno e la persona dell’autore in carne e ossa, complice anche l’adozione di uno stile essenziale, chiaro, che rifugge ogni artificio retorico meramente esornativo (non è certo un caso che Italo Calvino sia lo scrittore del cuore di Bartolini). Eppure, avendo noi a che fare con un personaggio-narratore dall’intensa vita di relazione – è sempre quest’ultima a costruire e strutturare un’identità –, avviene che la realtà esterna al soggetto, a partire da quello straordinario microcosmo che è la contrada, acquisti ampio rilievo, facendo sì che “Racconti sparsi” possa essere letto tanto come il percorso di crescita di un individuo quanto come uno spaccato della società senese e italiana degli ultimi trent’anni del secolo scorso. Il passo che segue appartiene al primo dei racconti castiglionesi, intitolato “La mia geografia”. A impreziosire il volume contribuisce la bella prefazione di Fausto Tanzarella.
“Un giorno mi hanno chiesto di raccontare la mia storia, ci ho pensato bene e mi sono reso conto che avrei preferito raccontare la mia geografia. Sebbene io sia nato a Roma, il centro del mio universo era Castiglione della Pescaia, il paese dove il destino, il fato, Dio, il caso, la vita, o forse sarebbe meglio dire gli eventi incrociati della vita, o tutte queste cose insieme, hanno voluto che io crescessi. Il centro della mia bussola era questo paese di mare affacciato sulla palude, che per noi è “padule”, un paese di sabbia dominato dalle torri di pietra pisane che hanno visto arrivare dal mare ni pirati saraceni, un paese verde e blu incoronato dalle mura del castello, un paese profumato di mirto e rosmarino. Al centro della mia bussola c’era il tragitto tra casa e bottega di nonno, dal profumo di gelsomino di via Sauro al profumo di pane di via Cavour, lungo la discesa di via Armellini fino alla casa dei gatti, che era piena di topi, in leggera salita su via Mazzini e poi in discesa con doppia curva verso via Remota, una delle vie più belle del mondo, nascosta, quasi scavata tra la piazza e le mura del castello, abitata da cani da caccia e lucertole da contemplazione, ombreggiata di giorno e buia pesta di notte, riservata, consentiva di evitare il passaggio davanti all’albero della maldicenza, dove “la Leggera” teneva il registro dei boschi. “La Leggera” era il soprannome del castiglionese più simpatico di tutti i tempi “che mai a nessuno dette pace””.
Jacopo Bartolini, Racconti sparsi, extempora, Siena 2024
a cura di Francesco Ricci