Dopo ovazione e commozione a Cannes , in concorso nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, alla fine siamo andati anche noi a vedere l’ultimo film del regista livornese Paolo Virzì: “La pazza gioia”. La pellicola ha riscosso molto successo, ricevendo un applauso di dieci minuti alla fine della proiezione, con elogi di pubblico e critica. Alcuni lo hanno definito il “film che ha commosso Cannes”.
La trama è tutta incentrata su due donne, Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), sedicente contessa decaduta, sposata ad un famoso avvocato amico del “Presidente”…. (!) , burlona e dal lessico forbito, ma soprattutto affetta da sindrome bipolare e Donatella (Micaela Ramazzotti), gracilissima, quasi anoressica, tatuata, silenziosa, sempre rivolta con lo sguardo in basso e che vive con il tormento di un figlio dato in adozione nonché affetta da depressione.
Beatrice e Donatella sono due donne “semplicemente matte“. Ferite e voraci d’amore, ospiti entrambe a Villa Biondi, accogliente casa di cura del pistoiese. Il borbottio assordante delle parole di Beatrice trova terreno fertile nel silenzio pesante di Donatella e tra le due sembra nascere quell’alchimia che le porterà ad una avventurosa fuga alla ricerca della felicità. Questo film è semplicemente il racconto della follia. La follia come evasione, fuga, ribellione alla noia, alla ipocrisia, all’orrore del reale, e colpisce. Quell’orrore del “normale” che conosciamo dai tempi di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.
Opera compiuta totalmente e generosamente al femminile ed è un film in fuga: non a caso la partenza squinternata delle due protagoniste nella decappottabile con il foulard pronto a raccogliere i capelli….(e qui il regista è chiaramente citazionista, si rivedono le “Thelma & Louise” di Ridley Scott del 1991 …) è l’unica modalità per una possibile, importante salvezza dal dolore: è la solidarietà femminile. Il film regge anche perché Virzì con la co-sceneggiatrice, Francesca Archibugi – anch’essa della scuola di Furio Scarpelli– fonda il film su ambienti credibili (l’adattamento tosco-versiliano che chiama alla mente Il sorpasso, Una vita difficile, Parenti serpenti , le commedie “nere” degli anni ’60) , su due attrici bravissime e su un’Italia tenacemente berlusconiana nelle sue frange provinciali che sono poi esemplari di tutto il resto.
Detto ciò, questo è comunque un film che parla di malattia mentale (non dimentichiamo che siamo il paese di Franco Basaglia….) ambientato nel 2014 quando gli ospedali psichiatrici giudiziari erano ancora aperti e tocca quindi temi molto delicati. Virzì rischiava di scivolare automaticamente in un banale pietismo o in uno schema consolatorio, quello classico dell’antipsichiatria. Invece ha creato un’opera onesta, “leggera” e prodiga: onesta nel mostrare la malattia ( e la sua gestione quotidiana che è l’avventura umana più complessa, con una fotografia che non ha avuto paura di farsi documentaristica quando ci ha descritto la quotidianità della comunità terapeutica…) , “leggero” – e tenero- nella relazione con i suoi personaggi (e con le loro manie…), prodigo attraverso l’impulso con cui gestisce questo folle “capitale umano” senza avere paura di nessun tema. Tutti da Virzì sono uguali: senza nord e senza sud, con una volgarità che accomuna gli educati e i maleducati, i ricchi, i poveri e i normali.
Alla fine del film, io e la mai amica eravamo in singhiozzi. Il resto della piccola sala si è alzato subito, mentre scorrevano i titoli di coda. Nel film c’era comunque la voglia di suscitare commozione, ma senza trucchi. Piccolo spoiler: la battuta più bella del film è quella di Beatrice, la ricca bipolare che, scappata dalla casa di cura, torna nella villa all’Argentario per poi fuggirne la mattina dopo….Le domestiche chiedono: “Signora, torna?” E lei: “Ma per carità, questo posto è così noioso! La felicità è nei vini buoni, nelle persone gentili, nei posti belli!” E chiamiamola “matta”…
Giada Infante
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