foto di Stuart Dootson
“Dopo Freud”, ha scritto Claudio Magris, “ la letteratura e specialmente la narrativa non sono più le stesse. Dopo la psicoanalisi lo spazio della narrativa sarà l’immenso e tortuoso fondale del preconscio e dell’inconscio: gli Ulisse del romanzo moderno si muoveranno tra gli impercettibili ma tremendi sommovimenti della loro struttura psicologica”. Anche Fausto, il protagonista di Nel nome di Jon di Marina Berti, è un Ulisse moderno. E un Ulisse moderno è anche Mattia, il liceale chiamato a confrontarsi con l’esperienza devastante della morte in carcere di suo fratello, e un Ulisse moderno è anche la sua sorellastra, Fran. Soprattutto, però, un Ulisse moderno è Jon, che si toglie la vita in prigione, il giovane che Fausto, valente psicologo, ha cercato inutilmente di ricondurre a Itaca, di ricondurre, cioè, a casa. Ma il ritorno, che l’anima bella romantica sapeva sempre possibile (“Dove siamo diretti? Sempre verso casa”, dice Enrico di Ofterdingen nell’omonimo romanzo di Novalis) e da sempre iscritto nel proprio viaggio esistenziale, resta per l’uomo del XX e del XXI secolo, a causa della sua consustanziale fragilità e inquietudine, una mera illusione. Ecco allora che al personaggio non rimane che misurarsi con i fantasmi della propria infanzia (a partire dalla figura materna), che continuano a condizionarlo al di là di ogni sforzo della volontà, e col rimpianto, straziante e struggente, di non avere salvato chi abbiamo incontrato lungo le strade della vita, come emerge anche dal passo che segue:
“Le lacrime scivolavano sulle mie guance e io mi chiedevo quanto fossi realmente adeguato per quell’incarico che mi avevano affidato. Aiutare persone così complesse. Tre anni prima, quando mi ero laureato con il massimo dei voti, il professor Passalà, mio relatore, mi aveva abbracciato entusiasta. Nella tesi avevo trattato proprio l’argomento del disagio tra i carcerati. Avevo operato ricerche approfondite ed ero giunto a conclusioni interessanti… Ma l’esperienza sul campo era tutt’altro rispetto a quanto studiato sui libri. I miei pazienti erano esseri umani, con i loro drammi, le loro perfidie, la loro umanità. Io parlavo loro come mi avevano insegnato a fare, ma non c’è una via giusta che funzioni adeguatamente per ognuno di loro. E io ora lo sapevo bene. Il suicidio del mio paziente era l’inevitabile conclusione del percorso che Jon aveva iniziato con me? Non riuscivo ad ascoltare le parole di padre Bartolomeo. Rivedevo il volto di quel giovane uomo che, seduto davanti alla mia scrivania, aveva imparato a fidarsi di me e mi raccontava, a piccoli passi, la storia della sua esistenza. Me lo rivedevo il primo giorno che era arrivato, ancora stordito dagli psicofarmaci che gli imponevano all’ospedale psichiatrico. Era pallido, e il pallore faceva risaltare il colore dei capelli, neri, quasi blu, caratteristici delle popolazioni asiatiche. Sembrava un animale ferito. Io avevo pensato che l’avrei salvato. L’avrei preso per mano e lo avrei condotto verso la salvezza, la consapevolezza della sua esistenza, forse, perfino, verso la libertà”.
Marina Berti, Nel nome di Jon, 2014
A cura di Francesco Ricci