“Una presenza che non mi lascia libero, ogni giorno non posso fare a meno di pensare a un aspetto o all’altro di questa vicenda. Solo se trovassero il mostro potrei trovare pace, forse”.
E’ un racconto che si fa cronaca, lunghe pause, silenzi, sospiri, sguardi persi nei ricordi. Poi ancora parole, dettagli inquietanti, occhi che ti invitano a guardare lo stesso orrore che hanno visto oltre trent’anni fa. Prima ancora delle aule di tribunale, prima dei processi, prima dei tanti (ma forse troppo pochi) testimoni dei sette (otto) duplici delitti del mostro di Firenze. Il racconto di Mario Spezi, all’epoca dei fatti cronista de La Nazione, è un fiume in piena che travolge e va oltre tutto quello che può essere stato letto, detto e scritto e ripreso sul caso che fece il giro d’Italia e del mondo dalla metà degli anni Settanta (in realtà dal 1968) fino alla metà degli anni Ottanta.
Processo chiuso, sia dalla Procura di Firenze che da quella di Perugia (dove si era snodato un filone dell’inchiesta attraverso la morte del medico Francesco Narducci) con la condanna in via definitiva di due uomini identificati come autori materiali di quattro duplici omicidi: Mario Vanni e Giancarlo Lotti, i cosidetti ‘compagni di merende’ di Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli e successivamente assolto in appello, morto d’infarto prima di essere sottoposto ad un nuovo processo di appello. Una storiaccia che ha scosso il Paese e che è arrivata oltreoceano alimentando (tuttora) una letteratura noir di successo, dove non mancano gli ingredienti perfetti per film e fiction ma alla quale, ancora, manca una soluzione.
‘Le notizie non dormono mai’ mi insegnò un vecchio collega al quale devo molto del mestiere che ho imparato e forse, in un sabato pomeriggio d’inverno, a casa di Mario Spezi, ho trovato tante risposte improvvise alle domande che da tempo mi facevo. Il giornalista continua a sostenere che il mostro sia vivo e in libertà. Ha il desiderio di chiudere davvero il caso, di trovare pace. Fu lui, dalle colonne del quotidiano fiorentino, a coniare il termine ‘mostro di Firenze’ e lui, forse più di nessun altro, porta ancora addosso cicatrici o ferite mai chiuse. Porta con sé il mostro. E in qualche modo mi chiede di aiutarlo in questa nuova vicenda. Dieci anni fa, il 4 aprile del 2006, Mario Spezi fu arrestato. Ed è proprio nel decennale dei fatti, all’indomani dell’assoluzione definitiva da parte della Cassazione, che torna a parlare – per caso (chissà…) con la sottoscritta – dei tanti mostri che hanno costruito il ‘mostro’. Continuando a sostenere la tesi che ben descrive nel suo Dolci Colline di Sangue, (fuori catalogo, ne rimangono ormai pochissime copie solo su Amazon) scritto con Douglas Preston (che, va ricordato, fu improvvisamente costretto a tornare negli Stati Uniti per il suo lavoro con Spezi).
“Nel 2004 ho subìto la prima delle perquisizioni che poi sarebbero sfociate, nel 2006, nell’arresto. Non mi sarei mai aspettato tutto questo. Mi si muovevano una serie di accuse, dal depistaggio al concorso in omicidio (del dottor Narducci, ndr), alla turbativa di servizio pubblico, fino alla calunnia. Ce l’avevano con me, certo, lo sapevo ma non credevo sarebbero mai arrivati a questo punto, Michele Giuttari (capo della Squadra Mobile di Firenze) e Giuliano Mignini (pm di Perugia, lo stesso che successivamente sarebbe stato titolare dell’inchiesta dell’omicidio di Meredith). Anzi, ricordo che al processo Meredith che ho seguito, Raffaele Sollecito mi fermò e mi disse, in riferimento a Mignini: ‘La mia storia è il seguito della tua’”.
Sono stato assolto da tutto ma sono finito in carcere, a Perugia e ci sono rimasto 23 giorni, trattato alla stregua del peggiore dei criminali. I primi sei giorni praticamente in isolamento. Fui completamente abbandonato e dimenticato anche dai colleghi giornalisti. Un’esperienza forte, indubbiamente, di quelle da raccontare, per le tante storie che ho vissuto in carcere. Compreso il compagno di cella che mi toccò dopo 12 giorni. Un delinquente perbene. Comunque, arrestare un giornalista, in un Paese del civile Occidente democratico, arrestato poi per le proprie idee, è assurdo e vergognoso”.
Un sorriso amaro, qualche divagazione mentre riprende fiato. I tre pacchetti al giorno di sigarette costano oggi, a Mario Spezi, la necessità di ossigeno. Eppure il giornalista ha voglia di verità.
“Il Mostro di Firenze è una storia di potere”.
Lapidario, fermo, Spezi pronuncia questa frase.
Che significa? “In un misto di cialtroneria e volontà precisa, io non tollero di aver visto distorcere fatti evidenti, di aver letto interpretazioni e non fatti reali, sopralluoghi ritrascritti ad hoc nei quali, improvvisamente, ad esempio mentre il pentito Lotti dimenticava le cose, il registratore guarda caso si rompeva e riprendeva a funzionare quando l’uomo ricordava… E ancora, sulle vittime seviziate erano scempi fatti con forza e precisione ma non con un taglio da bisturi. Certe persone prima di andare a testimoniare imparavano la lezione. Ecco, questi sono alcuni esempi. Poi le coincidenze: i magistrati che brancolano nel buio seguendo la pista dei sardi, il rischio di un flop tremendo, una lettera anonima e un processo costruito su Pacciani e complici, che si chiude con le condanne (tra l’altro, l’assurdo assoluto di Lotti che ‘confessò’ quattro duplici omicidi. E gli altri tre, perfettamente identici?) Un anno dopo Pier Luigi Vigna è stato nominato procuratore nazionale antimafia”.
Coincidenze, è vero. Inquietanti ma soltanto coincidenze. Intanto, però, il mostro esiste ancora secondo la tesi di Mario Spezi. Ed avrebbe un nome e un cognome: “Il nome c’è, nel libro uscito negli Stati Uniti tutto è pubblicato senza censure, in Italia sono stato costretto a trovare un nome di fantasia ma è noto chi sia ‘Carlo’, no? Ho sempre creduto in quella pista e continuo a sostenerla. Non dico che Carlo è il mostro. Dico che tante coincidenze fanno sì che gli somigli molto”.
‘Carlo’, in effetti, dal 1974 al 1981, intervallo di silenzio del mostro, è stato lontano da Firenze ma a Bergamo, dove ha vissuto quegli anni, ci sono stati omicidi analoghi? “No, non ce ne sono stati”.
Il dubbio rimane: un serial killer con il profiling dell’FBI di Quantico – che a ‘Carlo’ corrisponde esattamente – come può smettere di avere certe compulsioni? “Forse ha trovato pace. Lo descrivevano come impotente ma non si è mai del tutto impotenti. Oggi, quest’uomo potrebbe avere dei figli e una compagna”.
Eppure ‘Carlo’ non è mai finito in carcere, o meglio ci è finito per altri reati minori: “Quando fu scarcerato Francesco Vinci, accusato di alcuni degli omicidi del mostro ma poi prosciolto, fui invitato a una cena di sardi: pecorino e filuferru. A fine serata si parlava del mostro e lì ebbi la certezza che anche oggi mi accompagna. ‘Il mostro è uno che si sa muovere di notte, in campagna, e che ha sofferto tanto da bambino’ mi disse Vinci. Ma usò un tono affettuoso”.
Secondo Spezi, dunque, il mostro è ancora vivo e forse la compulsione è solo sopita ma non scomparsa – tesi psicologiche dicono sia impossibile fa smettere la compulsione a meno che il serial killer non si faccia prendere o si suicidi – e la famigerata Calibro 22 “difettosa” come ricorda il giornalista, non è stata mai trovata. “Ma è la sua firma, non se ne libera. Semmai si è liberato dei feticci presi dai corpi delle vittime, in qualche modo…”. Ed è un modo che fa venire i brividi.
Troppe ombre rimangono ancora…“Non è mai stato preso nemmeno il gruppo sanguigno delle vittime”. E mai si è pensato, da quando fu possibile, all’esame del Dna? “Mai”. Oggi, un caso come questo sarebbe forse risolto in pochi giorni.
Troppe ombre ma qualcosa si muove: il caso del mostro si riapre.
Katiuscia Vaselli
foto di archivio dei giornali dell’epoca.
(Hanno collaborato, e li ringrazio, Andrea Ceccherini con la sua curiosità e Monica Perozzi con la sua professionalità)
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