Una nuova e non secondaria questione sta caratterizzando da qualche tempo la vita quotidiana di alcuni Paesi europei: una sorta di “discriminazione protettiva” che molti Stati sembrano voler applicare nei confronti di determinati cittadini. Le migrazioni di cui è oggetto il Vecchio Continente da più lustri – un fenomeno che, com’è palpabile, si è acuito fortemente fino a diventare pressoché incontrollato – hanno generato e stanno generando problemi ai quali si sono date soluzioni del tutto insoddisfacenti e spesso incoerenti. Insomma, sembra che la vecchia Europa stia navigando a vista, priva di un programma degno di questo nome e di una bussola che la orienti. Alle diverse risposte fornite dai singoli Stati – si pensi al multiculturalismo di stampo anglosassone, fino all’assimilazionismo francese – stanno seguendo, in esito all’aggravarsi della crisi migratoria, il ritorno a vecchi nazionalismi vissuti come difesa identitaria, l’erezione di barriere e di muri, immemori (ma si sa che l’essere umano ha spesso una memoria cortissima) che la caduta di un Muro, quello di Berlino, era stato vissuto come un ritorno alla libertà per i popoli. Atteggiamenti di chiusura e di egoismo velati di elementi identitari spesso fine a sé stessi, dimentichi che l’Europa è di per sé, storicamente, il prodotto di un vero e proprio meticciato di popoli e che l’affermazione di identità etniche o religiose conduce, quasi sempre, a incomprensioni, attriti, intolleranza. L’argomento richiederebbe ben altro spazio per una trattazione almeno sufficiente. Voglio però brevemente soffermarmi su un tema, apparentemente secondario – quello che all’inizio ho chiamato di “discriminazione protettiva” – che a mio parere risulta piuttosto significativo circa il disorientamento con cui l’Europa sta vivendo questa fase complessa della sua storia.
Il 7 novembre 1967 l’Assemblea Generale dell’ONU adottava una Dichiarazione sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne e, per renderla efficace, veniva elaborata a partire dal 1976, una Convenzione vincolante a livello internazionale (Cedaw) che veniva approvata il 18 dicembre del 1979. La Cedaw obbliga gli Stati che l’hanno sottoscritta “a riconoscere l’uguaglianza giuridica tra uomini e donne, abolire le leggi discriminatorie, contrastare la violenza di genere, eliminare gli stereotipi associati ai ruoli tradizionali di uomini e donne nella famiglia e nella società, istituire tribunali e istituzioni pubbliche per assicurare una protezione effettiva contro la discriminazione”. Il quadro internazionale risulta quindi, piuttosto chiaro. Tuttavia alcune recenti e meno recenti decisioni assunte da singoli Stati europei o da specifiche autorità (sto pensando, ad esempio, alla creazione di treni in Germania per sole donne, alle raccomandazioni, provenienti da più parti, dell’uso di abiti che non urtino la “suscettibilità” altrui, e l’elenco potrebbe continuare) lasciano, a dir poco, molto perplessi. Sembra di essere di fronte ad un gigantesco passo indietro della storia; quasi un volersi piegare e rinunciare a semplici “diritti” che ormai davamo come acquisiti per sempre: quei diritti che riconoscono a uomini e donne pari dignità. Sembra di assistere, in definitiva, ad un ritorno al passato quando alcune misure nei confronti delle donne, che oggi non avremmo dubbi a definire discriminatorie, erano considerate alla stregua di vere e proprie “misure protettive”. Non è questa la Società che abbiamo costruito – che le donne hanno costruito – e non è questa la Società arrendevole nella quale far crescere i nostri figli. Ai diritti e alla dignità personale non si può né si deve rinunciare, mai, nemmeno in ragione di un malinteso senso dell’accoglienza e di rispetto delle tradizioni o dei costumi altrui. Prima di rispettare l’altro – e il rispetto non può non essere reciproco – dobbiamo avere il coraggio e la consapevolezza di dover rispettare innanzitutto noi stessi e chi, ben prima di noi, ha lottato, talvolta molto duramente, per la conquista dei nostri diritti. È innanzitutto il rispetto di noi stessi che ci consente di imparare a rispettare l’altro.
Giovanni Minnucci
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