A distanza di due anni dal fortunato saggio La bella giovinezza. Sillabari per millennials (tre ristampe, due edizioni),Francesco Ricci pubblica un nuovo libro dedicato all’universo giovanile, significativamente intitolato Prossimi e distanti. Gli adolescenti del terzo millennio (Primamedia editore, pagine 152), nel quale vengono presi in esame dieci aspetti legati ai Millennials (i nati tra il 1980 e il 1999) e alla cosiddetta generazione Z (i nati dopo il 1999): la nuova figura di genitore, la scuola, la mancata valorizzazione di dimensioni come la creatività e la fantasia, la sindrome consumistica, la rimozione della morte, la sfiducia nella politica, la mancanza di futuro, la rarefazione dell’esperienza, le vecchie e le nuove forme di bullismo, la disaffezione religiosa. Per gentile concessione dell’Editore si riporta parte dell’introduzione curata dallo stesso autore.
“Ciascuno dei dieci capitoli si apre con un passo tratto dal romanzo di un autore italiano o straniero (Alberto Moravia, André Gide, Antonio Tabucchi, Benedict Wells, Cesare Pavese, Francesco Piccolo, Giorgio Bassani, Luigi Meneghello, Niccolò Ammaniti, Pier Paolo Pasolini). Una scelta, questa, che ai miei occhi possiede un significato ben preciso. La letteratura, infatti, specie a partire dalla prima metà dell’Ottocento, si è confrontata costantemente con la figura dell’adolescente, ora offrendo una testimonianza del suo modo di abitare il mondo, ora intuendone e presagendone le trasformazioni nell’immediato futuro. Di conseguenza, all’interno di un approccio alla questione giovanile da me affrontata riconoscendo l’importanza delle relazioni tra le varie discipline (un approccio, perciò, critico nei confronti del paradigma dominante, che celebra la compartimentazione del sapere), la produzione letteraria occupa un posto di assoluto rilievo, venendosi a collocare, come strumento di analisi e di studio, accanto alla sociologia, alla psicologia, all’osservazione diretta, in qualità di docente, del comportamento degli adolescenti. Non solo. Dinanzi all’evidenza di una gioventù, quale è quella odierna, contrassegnata dall’assenza di desideri, da diffusa indifferenza emotiva, da bassa empatia, dal non saper accettare il fallimento e la caduta, dal non rivolgere quasi mai attenzione alla propria interiorità, dalla propensione a far coincidere il pensabile col possibile, la lettura di un libro costituisce, a mio avviso, un argine, un rimedio, forse perfino la salvezza. Ciò che essa richiede, infatti, – in primo luogo silenzio, concentrazione, raccoglimento – già si pone in contrasto sia con la distratta assuefazione al costante rumore di fondo proprio della moderna società dell’informazione sia con la tendenza, evidenziata anche da alcune analisi psicologiche contemporanee, a non riuscire più a prestare attenzione, a non sapere più osservare senza fretta quanto ci circonda. Inoltre, la lettura contribuisce in maniera decisiva a far conoscere l’uomo, a portarne alla luce la complessità e il grumo di contraddizioni che lo connotano, a ricordarci che la singolarità irripetibile dell’individuo scaturisce (non nega, non rifiuta) da un fondo comune di passioni, sentimenti, emozioni, inquietudini, debolezze, e che è proprio questo fondo comune a farci sentire nostre le vicissitudine del personaggio di un racconto o di un romanzo, nostre le sensazioni e le considerazioni affidate da un poeta a un verso. Non si spiegherebbe, altrimenti, il fascino che continuano a esercitare sul lettore le parole che l’anziano Cremete pronuncia nell’ “Heautontimorumenos” del commediografo latino Terenzio, le quali costituiscono l’espressione più alta dell’antico ideale di humanitas: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda”).
La verità è che letteratura può ancora molto, può “tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere” (Tzvetan Todorov). Proprio per questo, però, è fondamentale che la scuola, sede privilegiata del discorso letterario e uno dei pochi luoghi rimasti nei quali è possibile ancora incontrare lo sguardo dell’altro, cessi di inseguire la contemporaneità e i suoi miti (digitalizzazione, principio di prestazione, velocità, individualismo esasperato, efficienza) e torni ad essere uno spazio eminentemente relazionale, uno spazio, cioè, del legame (con testi e autori, docenti, compagni) e non uno spazio del link, uno spazio di responsabilità e non uno spazio di semplice contatto, uno spazio di condivisione e non di competizione. Resta, infatti, solamente l’aula, e in qualche caso l’abitazione domestica, in un’epoca contrassegnata dalla fine di quelli che per molto tempo sono stati i luoghi deputati alla socializzazione – l’oratorio, le case del Popolo, il quartiere, i giardini cittadini – a custodire la ricchezza del dialogo, dello scambio, del confronto, attraverso i quali passa la costruzione dell’identità del giovane. E di poche cose i nostri adolescenti mostrano di avere più bisogno che di riuscire a individuare quello che è il proprio compito esistenziale, il quale, una volta divenuto progetto (dal latino proiectare “gettare avanti”), è in grado di assicurargli un’apertura sul futuro, lontano dalle secche di un presente assoluto, povero, angosciante. È per questa ragione che aiutare un giovane a scoprire il proprio mondo interiore resta il dono più prezioso che un insegnante possa fare ai suoi studenti, un genitore ai suoi figli”.