“Marilyn si salvò da sola”, l’ultimo libro di Riccardo Gambelli, è un romanzo sulla violenza. La violenza istintiva, brutale, che si confonde con la naturale tendenza dell’essere umano all’aggressività verso gli altri soggetti; la violenza sottile, meditata, che si avvale della ragione per ledere e offendere. È in questo spazio che si schiude tra l’animale e l’uomo, e che rinviene nella coscienza (intesa tanto come coscienza morale quanto come attività psicologica) la frontiera che separa le due porzioni di territorio, che si muovono e agiscono i personaggi principali di “Marilyn si salvò da sola”: i due giovani che stuprano Lietta, il padre della ragazza che attua la sua personale vendetta, Luigi De Candia che diviene complice di una politica aziendale, per la quale la crescita del fatturato giustifica ogni vessazione e ogni ingiustizia ai danni dei dipendenti, un marito rozzo e scioperato, che pubblicamente fa provare vergogna a uno dei tanti “umiliati e offesi” che la società relega ai suoi margini.
Ed è proprio la centralità che possiede la violenza nel romanzo di Gambelli, a fare sì che in queste pagine trovi posto anche tanta sofferenza (dell’anima) e tanto dolore (del corpo), sofferenza e dolore che, come ha mostrato Salvatore Natoli nel suo bellissimo saggio “L’esperienza del dolore”, inducono sempre l’uomo all’intimo raccoglimento e al porsi le domande più radicali sull’essere, sia che si tratti di una vittima, sia che si tratti di un carnefice. D’altra parte – e nessuno lo ha detto meglio di Baudelaire (“Coltello e piaga, schiaffo e guancia, membra / e ruota sono, vittima e carnefice”) – accade spesso che i due ruoli si scambino di posto, ed è proprio questa loro interscambiabilità a donare movimento narrativo a “Marilyn si salvò da sola”.
Ad esempio, Il progressivo prendere coscienza da parte di Luigi De Candia del male che ha compiuto e delle esistenze che ha distrutto, diviene in lui fattore di trasformazione interiore e di una scelta di vita capace di condurlo fuori dalla situazione bloccata in cui si trova all’inizio del romanzo; analogamente Lietta, nel momento in cui accetta di leggere e giudicare in maniera nuova la condotta altrui (in particolare del padre), vede aprirsi davanti a sé strade destinate a cambiare per sempre il colore e l’atmosfera dei suoi giorni. In ogni caso, sebbene la conclusione del romanzo si apra alla speranza, come sovente accade nei libri di Gambelli, tuttavia, a mio avviso, le pagine più belle e più riuscite restano quelle al centro delle quali la violenza si accampa con i suoi tanti e diversi volti.
Reale e ideale, infatti, non sembrano possedere la stessa forza per lo scrittore senese. In altri termini, l’ideale non appare mai potersi calare veramente nel reale, non appare costituire un sicuro e credibile argine di fronte al dilagare del male: piuttosto, rimane al livello di auspicio, di augurio, di speranza appunto. Non è la ragione, insomma, a riconoscere e ad affermare l’esistenza dell’ideale, bensì è la volontà a reclamarlo e a ipotizzarlo. Ma non è sufficiente un congiuntivo ottativo a scalfire l’abitudine del male, l’abitudine al male, che della scrittura di Riccardo Gambelli, non a caso, costituisce la nota più originale e più propria. Il passo che segue è tratto dall’inizio del capitolo.
“Il lago era piatto, come tutti i giorni, immerso nel silenzio. Una leggera foschia copriva le acque ed il leggero movimento delle onde, dormienti sulla riva con piccoli fruscii, leggiadri tremolii. Si era appena svegliato e dalla sua camera ammirava come sempre quella tavola d’acqua davanti a lui; i suoi occhi erano avidi dei suoi sussurri e fissavano quella pace in tutta la sua limpidezza. Quel lago, grande ritaglio d’acqua, era lo specchio della sua nima, e, come Narciso, si avvicinava a lui, si guardava dentro e si riscopriva ogni volta. Lo aiutava a camminare, a viaggiare silenziosamente nel labirinto dei propri tormenti. Lui si paragonava a quel lago, con i suoi settantatré anni, per la sua pacatezza, la maturità, la consapevolezza, e per la propria esperienza arricchita da sentimenti più profondi, stimolato in pensieri lunghi, spesso belli ma soprattutto tristi e dolorosi. Da giovane amava il mare, simboleggiante da sempre il vigore, il movimento, l’andare, il cercare, il godere e la voglia di vivere. I colori del mare sono accesi e in genere portano le persone a vestirsi con abiti colorati e visibili, magari per accentuare l’indispensabile abbronzatura. Il sapore e l’odore sono inebrianti, il rumore delle onde è aggressivo, la brezza penetra nel corpo, spinge le idee ed aumenta il coraggio, facendoti sentire immortale”.
Riccardo Gambelli, Marilyn si salvò da sola, Cantagalli, Siena 2021