Come il sergente Nicola Lorusso in “Mediterraneo”, film cult per la mia generazione e premio Oscar nel lontano 1992, anche io ho passato tre anni in un’isola. Come lui quasi senza accorgermi che di là, in continente, il mondo rapidamente cambiava. A lui sfugge l’evolversi di una guerra che condusse prima l’Italia alla disfatta e poi al riscatto con la Resistenza, senza la possibilità di dimostrare il proprio valore. A me, per seguirne uno per lavoro, è sfuggito il naufragio della città in cui vivo e che in tutti questi mesi ha mostrato il suo volto più drammatico e duro.
Quando Lorusso, tagliato fuori dalla mischia tutto quel tempo, riparte per tornarsene in Italia ha tutte le energie per cogliere le opportunità di un Paese da ricostruire in cui “c’è grande fermento”. Si trova nell’età in cui “non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo”. Io quella stagione l’ho già passata da un pezzo pieno di cicatrici con cui fare i conti; non più giovane né ancora anziano. A volte penso che preferirei rimanere sullo scoglio che mi ha saputo accogliere bene ma devo ripartire e non posso fare come l’attendente Farina che, per fuggire al mondo, si nasconde in un barile di olive.
È venuto anche per me il tempo di rimettermi in cammino e lo accetto di buon grado. Tante cose sono successe in questi tre anni al Giglio come a Siena ed ho sempre cercato di osservarle da quella giusta distanza che fa permettere di essere spettatore attento e non direttamente coinvolto. Anche se non sono riuscito ad essere un perfetto epicureo, per dirla con Lucrezio, come coloro che da terra vedono una nave in preda alla tempesta e con cuore sollevato osservano la loro felice situazione rispetto alle altrui disgrazie.
Per il mio incarico precedente a Siena avevo avuto modo di conoscere molti dei protagonisti di quella stagione ed ho sofferto nel tentativo di capire quel che era accaduto e che stava accadendo. Dal Giglio ho scritto, con ragione e sentimento, un post sul mio Blog quasi ogni giorno nel periodo più intenso della crisi politica e ne ho ricavato un libro, “Scandalosa Siena”, che per me ha avuto l’obiettivo quasi terapeutico di “riprendermi” il mio posto e di nuovo innamorarmi della mia città.
Sono partito per il Giglio quando da poco era arrivato un Commissario in Palazzo Pubblico e Franco Ceccuzzi, dimessosi stranamente da Sindaco, rimaneva il dominus del Partito Democratico sebbene Niccolò Guicciardini fosse il segretario provinciale; la banca era in mano da qualche mese a Fabrizio Viola e Alessandro Profumo, che ora sta per lasciare definitivamente la città; alla Fondazione c’era Gabriello Mancini e Giuseppe Mussari era ancora a capo dei banchieri italiani. La Mens Sana macinava vittorie e titoli e la Robur giocava negli stadi di serie A. Sembra un secolo fa. Ancora non c’erano stati, per citarne alcuni, i licenziamenti di tanti lavoratori a SienaBiotech né quelli all’Enoteca Italiana, i primi concreti frutti di questo disastro doloso che è stato sì finanziario ma soprattutto etico e morale di una intera classe dirigente, che, forse, non è ancora del tutto rottamata. E non è certo colpa dei senesi, come qualcuno sta cercando di dimostrare con una tesi stravagante che li vuol far passare tutti per bischeri, direbbero i fiorentini, o per coglioni, come diremmo noi.
Adesso torno e conto di trovare Siena come deve aver visto l’Italia dopo il passaggio del Fronte il sergente Nicola Lorusso. Una città da ricostruire, dove forse ancora la depressione da crisi ha la meglio sulla voglia di ricostruire. Ma non si può stare a piangersi addosso e dopo la caduta bisogna alzarsi subito e ripartire. Mettere definitivamente all’angolo i responsabili, consapevoli o no che siano stati, e imboccare una strada comune da cui ricominciare. Non c’è altro da fare né tempo da perdere. A quelli della mia generazione, che se ne stanno spettatori per paura di subire chissà quali purghe che non ci saranno, rimando una frase del sergente Lorusso: «Una vita è troppo poco. Una vita sola non basta. Se conti bene non sono neanche tanti giorni. Troppe cose da fare, troppe idee. Ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni. Perché penso che è passato un altro giorno». Ecco, non facciamo passare invano altri tramonti.
Michele Taddei