Dario Firuzabadì, dal 2012 è assegnista di ricerca al Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente all’Università di Siena, ed è tornato da poco dall’Etiopia, dove, ormai da anni, l’Università di Siena porta avanti lo studio della formazione geologica della Rift Valley.
Qual è stato lo scopo di questo viaggio e, spieghiamo meglio a tutti i lettori, quale è l’importanza della Rift Valley?
“Siamo rimasti in Etiopia dal 13 al 28 di febbraio per ripetere per la quarta volta una missione cominciata nel 2004: misurare le deformazioni di questo sistema particolare che si chiama Rift Valley. Siamo andati a studiare questa struttura che è una sorta di “spaccatura”, o meglio un sistema di fratture che sta separando la placca somala da un’altra che si chiama Nubia. E’ un processo lentissimo, un processo di apertura di continente che possiamo solo osservare adesso, immaginando cosa succederà in futuro: potrebbe aprirsi un nuovo mare come il Mar Rosso o un oceano, alla lunga, come l’Atlantico. Noi cerchiamo di capire in che direzioni, con quale velocità si verifica il processo di spaccatura. Lo studio delle dinamiche del pianeta è uno studio estremamente affascinante e importante, di certi processi conosciamo tanto dei pianeti del sistema solare, e ancora c’è tanto da scoprire sullo stesso pianeta Terra”.
In che modo avviene, praticamente, questa misurazione?
“Siamo andati nella zona di frattura in cui queste deformazioni sono più attive e nel 2004 abbiamo installato una rete di capisaldi che non sono altro che dei tasselli di ottone piantati nella roccia, di cui poi abbiamo misurato con gps di precisione la posizione. Questa cosa è stata ripetuta nel 2005 nel 2006 e nel 2007 e abbiamo stimato dei tassi di spostamento di apertura di questo sistema di rift. I movimenti che abbiamo registrato all’epoca erano il doppio più veloci di quelli che venivano riportati nella letteratura scientifica e quindi era un risultato interessante da valutare”.
Come si è svolto il viaggio e da chi è stato finanziato?
All’epoca fu un progetto finanziato dal Ministero della Ricerca, per cui siamo potuti andare grazie a dei finanziamenti pubblici per 3 anni. Questa volta, non essendoci fondi, ci siamo frugati in tasca. Per noi era molto importante continuare questo progetto che ha coinvolto il gruppo di geomorfologia del Dipartimento di Scienze fisiche della Terra e dell’Ambiente, composto da me, il professor Mauro Coltorti e i ricercatori Leonardo Disperati e Pierluigi Pieruccini. Non sarebbe stato possibile, però, portare avanti questo lavoro senza l’aiuto di 8 tesisti (prevalentemente della triennale) del dipartimento, che sono venuti a spese proprie, con noi, per fare un’esperienza e per poi concretizzare il loro lavoro in una tesi. Siamo quindi partiti in 12, divisi in varie città, per svolgere varie analisi: un gruppo, il mio, si è occupato di misurazioni gps, un altro gruppo si è dedicato ad uno studio geomorfologico, erosione del suolo, evoluzione dei paleoambienti… Il lavoro è durato 2 settimane. Al momento stiamo elaborando i dati e speriamo di avere a breve i risultati”.
Come è stato vivere un’esperienza all’estero con i propri studenti? Quale è stata la loro reazione?
“Quando si lavora in campagna, durante le tesi, soprattutto all’estero, il rapporto studente-docente cambia, perchè chiaramente ci si ritrova a vivere situazioni particolari che abbassano il livello di formalità. Io ho fatto questa esperienza da studente nel 2004, e per me fu sorprendente comprendere di avere un rapporto umano con delle persone e non solo con delle entità (è così che sono visti i professori dagli studenti). Si è creato un buon rapporto, i ragazzi sono stati molto collaborativi, e sentivano l’importanza di quello che stavano facendo, sia in termini didattici che personali. Per loro è stata un’esperienza forte vedere per la prima volta l’Africa, perchè non si tratta di mete turistiche, non di città principali, ma di un villaggio con le capanne di paglia e sterco di vacca, dove vivono bambini scalzi, coperti di mosche, con i vestiti stracciati. Accanto, c’è il villaggio in cui per fortuna arriva una canaletta che porta l’acqua del fiume (costruita dai cinesi), e quindi è possibile fare agricoltura e lo stile e il tenore di vita cambiano notevolmente: oltre alle scarpe gli abitanti hanno anche i cellulari. E’ stato forte confrontarsi con una realtà così diversa dalla nostra, perchè è un modo di vivere con priorità completamente differenti. Per cui se tu dai una bottiglia di plastica vuota ad un bambino lui lo vedi sorridere come raramente vedi sorridere un bambino occidentale, perchè quella bottiglia per lui rappresenta un mezzo per prendere l’acqua. Riciclano tutto il riciclabile fino a che è possibile per poi però inquinare, buttando tutto ciò che non lo è più: esistono questi grandi contrasti, come il fatto che le bambine di 11 anni lavino i panni o prendano l’ acqua percorrendo chilometri mentre gli uomini passeggiano per le vie del paese… è chiaro che è difficile per noi capire, che non significa condividere, ma vuol dire osservare con occhi di chi partecipa e non di chi critica. Qualcuno di noi ce l’ha fatta, qualcuno meno. Le discussioni tra noi sono state comunque costruttive e interessanti”.
La sua esperienza personale?
“Ho visto una differenza tra il 2004 e il 2016, perchè nel 2004 gli asini erano pochi, e portavano quasi tutto le donne, insieme ad uno o due bambini in braccio. Ho visto la situazione migliorare, ho ritrovato bambini conosciuti nel 2004. Ad esempio, nel 2004, appena arrivati, avevamo conosciuto un bambino che stava sviluppando il tracoma, una malattia all’occhio che causa la perdita della vista. Nella fase iniziale sarebbe stato possibile intervenire, e abbiamo provato a convincere i genitori a usare medicine e saponi, ma vedevamo una forte diffidenza nei confronti della cultura di noi bianchi, dei “farangì”. Questo bambino ha quindi perso l’occhio, non l’abbiamo più trovato nel 2006 ma invece lo abbiamo ritrovato adesso, un ragazzino sanissimo- a parte l’occhio- in forma. Ed e’ stato emozionante. E’ stato emozionante anche rivedere alcuni posti a cui ero particolarmente legato, e la bellezza del paesaggio che è da documentario”.
Pensa che il vostro lavoro possa giovare agli autoctoni?
“No, purtroppo. Questo è stato esattamente il motivo per cui ho scelto di cambiare quello che avevo deciso di fare da grande. Ero studente e mi vedevo studioso della tettonica a zolle, la materie che più mi interessa, la più grande, che è al di sopra di tutti noi come dimensione, energia ecc… trovandomi davanti a questi bambini che mi chiedevano se quella roccia su cui avevo messo il gps nascondesse acqua , gas, o qualcosa che potesse cambiare il loro tenore di vita mi sono sentito inutile. Ho capito così che da grande avrei dovuto fare qualcosa che facesse del bene a qualcuno, così l’attività della tettonica a zolle è stata messa in secondo piano e da anni ormai mi occupo di protezione civile, di sistemi di monitoraggio in situazione di frana, zona sismica, rischio idraulico… E’ un lavoro che svolgiamo a scopo di ricerca. Nell’immediato non si sa quali possano essere le ripercussioni pratiche, ma fa parte della ricerca pura. Bisogna conoscere per poi scoprire quali possano essere le applicazioni della conoscenza”.
Tilde Randazzo
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