Tra le dolci colline di sangue

Uscendo a Firenze sud la campagna toscana si manifesta in tutta la sua particolarità. Quell’arteria denominata A1, prepotente nel tagliare in due una vallata coronata da storie di collina e racconti di bosco, sembra addolcire il suo pragmatico ruolo di autostrada e, come se abbassasse la testa, ossequia il territorio che sta attraversando. Bagno a Ripoli, Grassina, Ponte a Ema sembrano realtà confinate ai margini dalla forza preponderante del nucleo cittadino, comuni respinti dalla fama di Firenze, villaggi a poche centinaia di metri dall’Arno urbano, ma che, come toscane Montmartre, mantengono le loro prerogative e le loro unicità. Lasciando i paesi e salendo sulle colline questa sensazione di mantenuto orgoglio comunale agreste si manifesta in tutto il suo splendore; boschi fitti nascondo strutture architettoniche, testimoni di un passato non troppo lontano, ville, giardini, e tutto diviene celebrazione di una Firenze che, da quelle alture, si lascia guardare nella sua interezza e splendore.

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Da una di queste prospettive Mario Spezi continua a guardare la sua città adottiva, quelle strade che da cronista ha percorso per tanti anni in cerca di una notizia, per conferma a una soffiata, per raggiungere i più svariati luoghi di lavoro. Sembra lontana Firenze, ma è solo a quattro miglia da lì; sembra lontana nella quotidianità, ma rimane vicina e stretta al cuore. E’ una persona cordiale Mario Spezi, lo si capisce da come ti accoglie e da come al tempo stesso trasmette richiesta di educazione e rispetto. La sicurezza traspare sia nei gesti che nelle parole ed è proprio la sua sicurezza il mezzo per provare a comprendere la storia di un uomo che nell’esposizione ti spiazza per impeccabile capacità retorica. Firenze nel frattempo ha acceso le sue luci e la vallata si trasforma in un meraviglioso tappeto di bronzo dorato scintillante; si intravede qualcosa dalla finestra dello studio, una luna calante che illumina i boschi e le corti padronali circostanti. E’ sabato sera e Mario Spezi ricorda i suoi ventitré giorni di galera. La sconfitta della democrazia, la perdita di dignità nazionale di fronte a uno dei pochissimi casi moderni di privazione della libertà personale a causa di ciò che si scrive, di ciò che si dice, di ciò che “pericolosamente”, per qualcuno, si pensa. E se l’Italia tutta rimase sbigottita, di fronte ad un intervento che, dopo sette processi si è rivelato completamente privo di fondamenta, ancor più sbigottito rimase il Mario Spezi allontanato dai sui affetti, privato della possibilità di continuare la sua indagine giornalistica, messo nella condizione di non poter portare a termine il suo Dolci colline di sangue frutto del lavoro di una vita e strumento intimo da consegnare ad una Firenze che aveva ed ha bisogno di una più che razionale spiegazione. Sono lunghi ventitré giorni per un innocente e l’ora d’aria, che in realtà ha una doppia durata temporale, diventa ancor peggiore dell’isolamento in cella. Tra le sbarre si parla con delinquenti “veri” che non ammettono né smentiscono mai il fatto per cui soggiornano nelle patrie galere, ma si limitano ad immaginare quali potrebbero essere gli elementi processuali che li costringono lì. E poi la mancanza delle sigarette, la necessità di chiedere consigli su come comportarsi, arrivare addirittura a studiare i gesti quotidiani dei detenuti e scoprire, tra le alte cose, che quell’ora d’aria così noiosa ed interminabile, potrebbe servire per correre, per mantenersi sani, per non far cedere il fisico alla mancanza di movimenti a cui obbliga la branda. Insomma Mario Spezi resta giornalista, rimane fedele alla sua passione, congela la rabbia e diventa testimone di una realtà da raccontare una volta fuori. Sette processi lo attenderanno, ma nel frattempo esce il suo libro, scritto in collaborazione con Douglas Preston e sarà subito un successo. Negli Stati Uniti diviene un best seller ed in Italia si esauriscono tutte le copie di due ristampe. Tre sceneggiature verranno scritte per trasformarlo in un film con l’interesse di Tom Cruise, la United Artists e la francese Canal+ e, con il passare degli anni e delle varie vicende giudiziarie, tutto ciò che Dolci colline di sangue racconta sembra sempre più assumere carattere di verità. Un caffè e un po’ d’acqua, la signora Myriam entra nello studio con la grazia che solo le donne di una certe elevatezza culturale e provenienza nordica possono avere; una carezza a Mario, una battuta scherzosa sul suo “lungo parlare”, un sorriso di intesa e quella stanza torna ad essere intrisa di amore, quello vero.

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Mario Spezi adesso sembra più vicino. Racconta degli otto duplici omicidi, di indizi, episodi, interviste fatte e rilasciate, parla di procure e processi, persone e luoghi, orari e giornate. Dice ciò che pensa premettendo sempre un doveroso “secondo me”. L’intervista lascia spazio a momenti di vera e partecipata commozione e quando la conversazione finisce è quasi ora di cena. La cena di un sabato sera qualsiasi come quella consumata da chissà quanti giovani ragazzi fiorentini con la voglia di anticipare la festa del giorno successivo. Era sempre festa il giorno dopo, sarebbe stata festa per i giovani ragazzi trucidati ed era festa per il ‘mostro’ che tra il 1974 ed il 1985 ha ucciso 14 vittime innocenti senza alcuna giustificazione o movente. Quattordici vite strappate materialmente alla vita da due o più mani, ma oltraggiate da anni di lotte di potere tra chi a loro doveva e, forse, ancora oggi deve una giustizia.
Andrea Ceccherini