La Giornata Nazionale delle cure palliative è stata l’occasione per acquisire nuove competenze e conoscenze su un terreno, ancora poco conosciuto, nonostante la legge 38/2010 faccia rientrare le cure palliative nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), dunque garantite, gratuitamente, dal Sistema Sanitario Nazionale. Ma è stata anche una fruttuosa opportunità di confronto tra medici, infermieri, oss, psicologi, dirigenti usl, volontari e familiari dei parenti.
Non è un caso che questa giornata venga celebrata durante l’Estate di San Martino, l’11 Novembre. Si narra che Martino di Amiens, incontrò un povero, malato e tremante per il freddo, con la spada divise il mantello (pallium in latino) e ne offrì la metà dicendo: “non posso guarirti, ma posso alleviare il tuo dolore”. Ecco perché si chiamano cure “palliative”: laddove non si può guarire, si può ancora alleviare la sofferenza.
Di tutto questo si è parlato in un interessante convegno organizzato all’ospedale di Campostaggia, a Poggibonsi.
Perché questo è quello che si tenta di fare quotidianamente all’hospice di Campostaggia: accogliere il dolore, la rabbia di chi si sta avviando verso la fine della vita. Perché se tutti noi sappiamo di avere una data di scadenza, il malato terminale conosce quella data con una certa esattezza “quanto mi resta da vivere? Tre mesi? Due? Forse meno?”
Le cure palliative hanno il precipuo scopo di far sì che quell’ultimo tratto di strada sia il meno spaventoso e doloroso possibile. Perché come è stato ricordato durante il convegno “il coraggio non esiste in natura, è qualcosa che emerge quando proviamo paura”
Con quella paura si confrontano ogni giorno coloro che lavorano con i malati terminali. Non solo con le paure del paziente, ma anche con le proprie. Spesso si trovano ad accudire loro coetanei o persone addirittura più giovani e non può non sorgere la riflessione “potrebbe succedere a me, ai miei figli”. Ecco anche perché chi lavora in tale settore è particolarmente a rischio burnout.
Certo è che tutti coloro che hanno parlato, dal caposala dell’hospice, agli infermieri, anche quelli domiciliari, agli psicologi, al responsabile del centro di ascolto della Toscana, a coloro che svolgono attività di cura palliativa come arteterapia o scrittura creativa, hanno raccontato anche di quale enorme privilegio sia poter camminare a fianco dei pazienti nell’ultimo viaggio. Un viaggio da compiere per mano.
E che quel “mantello” abbia donato un po’ di tepore e di sollievo, lo dimostrano le parole commosse e piene di gratitudine del marito di una paziente scomparsa l’estate scorsa, che intervenendo al convegno, ha raccontato quei 100 giorni all’hospice, giorni di attesa, emotivamente e fisicamente devastanti che venivano alleviati dalle cure palliative e dall’affetto dimostrato dagli operatori.
L’incontro si è concluso con un messaggio di speranza di una delle responsabili della Valdelsadonna “come sapete, noi componenti dell’associazione siamo donne malate di cancro. Tuttora io sto facendo la chemioterapia, e quando vado ad oncologia per le cure e vedo il cartello hospice così vicino, ho paura. Ma trovo anche la forza e la speranza.” La voglia di combattere di queste donne che hanno creato un’associazione grazie alla quale finanziano molteplici progetti è anche nelle loro aspettative: che cure palliative come arteterapia, scrittura creativa, corso di make up (già attive presso l’hospice) non siano solo per i malati terminali. E che molto ancora possa essere fatto per condividere la sfida per vincere una malattia, o perlomeno il dolore che provoca anche quando non c’è più speranza, tra operatori, pazienti e loro familiari.
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