L’iconografia del Palio, un terreno di dialogo

Ecco il testo integrale della nota a firma di don Enrico Grassini – direttore dell’ufficio beni culturali della Diocesi – una vera e propria proposta di dialogo e di superamento delle polemiche sulla iconografia del Palio.

“Il simbolo dà a pensare”, diceva il filosofo Paul Ricoeur, citando la potenza evocativa che nell’animo umano suscita la dinamica simbolica: il simbolo è un mezzo attraverso il quale l’uomo, da sempre, evoca una realtà diversa da sé, entra in una dialettica con tutto ciò che va oltre il visibile davanti ai propri occhi.

Ogni cultura umana vive di simboli; Siena vive di simboli e il Palio è esso stesso un simbolo che rende reale una storia, attuale un passato che sarebbe di per sé sepolto dalla cenere del tempo. In questa dinamica antropologica dominata dal linguaggio del simbolo si colloca l’immagine del drappellone, che del Palio diventa l’oggetto più ambito e rappresentativo. Che sia un simbolo e sia percepito come tale lo dimostra l’estremo interesse, l’attenzione e la critica severa alla quale è sottoposto dal giudizio popolare. Non esiste opera d’arte al mondo così discussa, anelata e vituperata allo stesso tempo, fulcro di discussioni, polemiche, entusiasmi e critiche di ogni tipo, quasi richiamando le antiche atmosfere, di quando la committenza pubblica incaricava i grandi artisti di parlare al popolo attraverso il linguaggio della bellezza, sottoponendo alla viva reazione della gente la qualità dell’opera stessa.

L’obiezione potrebbe essere quella che il popolo giudichi senza avere le competenze artistiche e storico-artistiche, poiché per accedere ai linguaggi dell’arte contemporanea non basta la sensibilità, ma anche una vera formazione. Ma è proprio nel momento in cui si pretende di sottoporre un’opera d’arte ad una mediazione critica, cioè a qualcuno che ci interpreti il suo linguaggio, si tradisce la dinamica e il potenziale evocativo del simbolo, poiché il simbolo deve essere “immediato”, cioè non bisognoso di alcuna mediazione. Il primo “termometro” di questa capacità simbolica del drappellone è proprio il boato (o i mugugni) che accompagnano la sua presentazione nel Cortile del Podestà. L’immediatezza si vede subito in quel momento: potrà essere un’opera d’arte o meno, potrà essere frutto di una mano esperta o no, di una conoscenza diretta della festa senese o di un forestiero: se parla al cuore, il popolo risponde.

Non è detto che il simbolo debba necessariamente ricercare il realismo delle forme, la loro purezza rappresentativa. C’è spazio anche nel simbolico del drappellone per i linguaggi dell’arte contemporanea, che parlano coi colori e con le forme, ben oltre la loro capacità di rappresentare la realtà dei soggetti. Una realtà che inevitabilmente viene interpretata dall’artista, che non è certo un mero esecutore; ma l’artista è bene che comprenda da che parte stare: nel drappellone si parla di una comunità, della sua storia, del suo presente e del suo futuro. Non dev’essere un monologo del pittore con se stesso, ma un dialogo fra il materiale e l’infinito, un viaggio fra terra e cielo.

Ecco pertanto le ragioni di indicazioni iconografiche che la committenza impone per regolamento e che non debbono mai essere tradite, perché il linguaggio non diventi muto. Nel drappellone ci dev’essere questa storia di amore, di morte, di passione e di vita che caratterizza i secoli di questa Città, e che il Palio riassume e sublima dall’oblio delle cose terrene: nel drappellone ci dev’essere Siena, tutta intera, coi suoi colori, il vissuto della sua gente semplice, di chi soffre e di chi gioisce, ci devono essere i suoi cavalli con tutto il carico di passione che sostengono, ci dev’essere la sua Madonna, senza la quale Siena non sarebbe la stessa.

La correttezza del riferimento iconografico a Maria, nelle sue due versioni di Provenzano e dell’Assunta, non è semplicemente una questione di pudico decoro, ma un’esigenza di rispetto nei confronti di Siena stessa. Sia libera la mano che la ritrae, usi i linguaggi che più le sono consoni e attraverso i quali possa meglio parlare il linguaggio della bellezza! Perché questo deve suscitare l’immagine di Maria nel drappellone: non è un’icona sacra dinanzi alla quale pregare (nessuno mai prega davanti al drappellone, si prega davanti alla Madonna del Voto, a quella di Provenzano e nelle icone mariane presenti nei diciassette Oratori), ma è l’apice, la parte più alta e più nobile di quel linguaggio simbolico che da sempre parla di Siena e della sua bellezza consolatrice, che ferisce e risana gli animi con la nostalgia dell’infinito.

La Madonna sia sopra ogni cosa, bella e colorata di ogni speranza, in alto sì, ma non per guardare con distacco ciò che succede ai suoi piedi, ma perché sia la vetta di quella tensione alla bellezza e all’eternità, mossa da tutti quei valori buoni e costruttivi, come la solidarietà e l’impegno per il bene comune, che animano e devono continuare ad animare le Contrade e le Istituzioni cittadine; perché il Palio continui ad essere un linguaggio di speranza che edifichi e trasmetta valori di civiltà, fuori da ogni sterile retorica fine a se stessa, che lo renderebbero, al contrario, lettera morta.