Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
Siamo nel 1554 e Blaise de Monluc è il generale mandato dalla Francia per aiutare i senesi durante l’assedio fiorentino e spagnolo della città. Tornato in patria scrisse i Commentaires, opera bibliografica in cui elogia il coraggio delle donne di Siena e l’alto valore nel difendere la patria di tutto il popolo senese. In un passo però si legge: “l’amore per le donne è la rovina del soldato”. Cosa avrà inteso? Quali storie si celano dietro gli anni del generale trascorsi a Siena?
“La carrozza era pronta, i cavalli erano stati strigliati e abbeverati per sopportare giorni e giorni di cammino. Loro avevano i paraocchi, gli era più facile guardare già verso la Francia, vedere solo la destinazione che li attendeva. A me, dopo i mesi trascorsi a Siena, era più difficile.
Volli fare un ultimo saluto alle creature che con cotanta tenacia avevano combattuto al mio fianco. A quelle gonne con i forconi in mano che all’inizio mi facevano ridere, ma di cui poi ho avuto l’onore di misurare tutta la forza e il coraggio. Detti ordine al cocchiere di dirigersi verso Porta Camollia. Alcune di loro erano ancora lì: in quel fortino che con pale e picconi avevano contribuito a costruire e a costo della vita avevano difeso fino all’ultimo. Ricevuto l’ordine di dirigersi a Montalcino, raccoglievano fra le macerie le loro ultime cose.
“Dov’è, lei?” domandai alle bambine che scorrazzavano attorno alle mura.
Prima che potessero rispondermi, l’acconciatura bionda e sfatta della signora Fausti si affacciò da una finestra che dava sulla strada. La sua carnagione, stancata da mesi d’assedio e una fame che le aveva scavato le guance, era così pallida da confondersi con la tenuta bianca che la contraddistingueva a capo del suo schieramento di combattenti.
“Generale” immaginai le sue ginocchia lasciate scoperte dalla gonna in un inchino. Gli occhi verdi mi guardarono, mai così stanchi come allora.
“Livia” – La mia voce in fondo sapeva, che era l’ultima volta che avrebbe avuto a che fare con questo nome e lo pronunciò più forte e deciso del solito – “Scenda, – le dissi – accompagno voi e la vostra gente fino a Montalcino”.
Ero stato informato che la signora Fausti aveva deciso di rimanere a Siena, dove voleva prendersi cura dei feriti e guardare in faccia l’invasore, ma non potei esimermi dal domandarglielo io stesso.
“Accompagni lì la mia gente. Le sarei grata se potesse prendersi cura di loro, come finora ha fatto. Il mio posto è qui”. Quello sguardo, fisso davanti a sé come se sapesse cosa vedere e la sicurezza dei lineamenti, incrollabili davanti al più umano sfinimento, fecero tremare il mio titolo di generale.
Per mesi avevamo combattuto fianco a fianco, scambiandoci poc’altro oltre agli ordini militari e gli scarsi tozzi di pane che ci arrivavano. L’assedio era terminato, avevamo perduto su tutti i fronti. A minuti avremmo udito la furia degli spagnoli comandati da Marignano entrare in città. Ci aspettava adesso una vita diversa, la pace benefica e mortifera di non dover più stare in guardia: del nemico oltre la barricata e di un corpo straniero che respirava a ritmo familiare accanto al nostro.
Prima di far ritorno a Parigi, alla corte di Enrico II, avrei condotto le famiglie senesi che non volevano arrendersi a Montalcino, dove avrebbero fondato la nuova Repubblica di Siena. Livia Fausti invece la salutavo qui, al fortino delle donne: spesse mura di mattoni dietro le quali cannoni e archibugi ci avevano protetto dal nemico e la vicinanza di corpi che lottavano all’unisono un po’ scoperto a noi stessi”.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci