Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
La fila per entrare al Papillon era il momento preparatorio, caotico, in cui l’anima della serata, fra il disordine di teste e acconciature, si faceva intravedere. Schiacciati fra folla urlante, facevamo a gara per tirare spintoni e conquistare una posizione più avanti.
A gran voce chiamavamo gli amici che avevano preso navette diverse, gli alti scrutavano se vi fosse qualche bella ragazza su cui scommettere che, una volta entrati, le avrebbero attaccato bottone e offerto un drink. Espressioni bagnate di alcol, dove la noia della settimana aveva provato ad affogare, ne incrociavano altre dello stesso identico tipo. Eravamo confusi, tutti. Eravamo adolescenti e per quanto lo negassimo non potevamo far altro. Al Papillon però ci sentivamo a casa. Tenuti e cullati dal nostro intelligente gioco di fingere tutt’altro.
Sotto i fari colorati e abbaglianti puntati sulla pista, il mio gruppo ed io aprivamo le danze. Cocktail di Malibù in mano, anche in inverno non importa, e movimenti scoordinati che l’alcol faceva apparire con un senso. Sotto a quei riflettori, la ragione rimaneva accecata e i sogni erano liberi d’esplodere dentro. Mi immaginavo fra dieci, quindici anni, ancora con loro, i miei amici. Ancora a combattere insieme senza parlarne mai le nostre più grandi paure. Magari una donna, un lavoro, una famiglia forse. Queste serate che non sarebbero mai concluse.
La fila adesso è regolata, fra una persona e l’altra vi è almeno un metro e mezzo di distanza ben rispettato. Guardo l’orologio. A breve dovrebbero chiamare il mio cognome, controllo di avere tutto con me: cartelle cliniche, carta d’identità, un’aspirina nel caso in cui mi venga mal di testa.
Qualcuno da dietro mi tira una pacca la spalla, infrangendo la distanza prestabilita. Mi volto, è Carlo. La barba allungata, la pancia che tira la t-shirt, i capelli che si contano sulle dita di una mano e un sorriso bonario sul volto. Mi dice che sta bene, che a giorni dovrebbe firmare il suo contratto a tempo indeterminato. E’ contento, così avrà un po’ di sicurezza.
Sicurezza, è lei la dea che adesso preghiamo. Sicurezza dal virus, dal mondo esterno in generale, dagli acciacchi a cui non abbiamo mai creduto e che adesso invece iniziano a farsi sentire.
Chiamano prima lui, poi me. Nella stessa stanza a fare il vaccino, lo guardo disteso sulla poltrona, gli occhi stretti e una smorfia a scacciare la puntura. L’infermiera al mio fianco sta per infilare l’ago, mi chiede se voglio girarmi. Chiudo gli occhi, in pancia volano le farfalle che provavo quando i fari rossi, gialli, viola delle nostre migliori serate mi illuminavano e io, in mezzo alla sala, ero il re incontrastato della pista.
Apro le palpebre, guardo il soffitto: le luci sono bianche, continue, funzionali. Invece che giocare a intermittenza a nascondere sotto un fare gagliardo le nostre più intime paure, illuminano in maniera chiara, ineccepibile aghi, camicie, sorrisi di competenza. Il luogo della notte, del dionisiaco, del curarsi con ciò che fa male, di tutto ciò che razionale non è ma è una metà senza cui l’uomo non può vivere, accoglie adesso come un tempio una differente cura: la scienza.
“E una dose è andata”, mi dice Carlo, uscendo.
“Una dose è andata”, gli rispondo.
“Magari in estate il Papi lo riaprono” – dice fra sé e sé – “Appena apre ci torniamo, vero?”
“Vero”, rispondo sicuro. Con questa promessa sul cuore e un cerotto sul braccio indolenzito torniamo più leggeri a lavoro.