Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
“A sedici anni ereditai il mestiere di mia madre. Il passaggio fu naturale come l’acqua che scorre sul letto d’un fiume: nessuno mette in dubbio il suo percorso, a nessuno viene in mente che possa anche andare altrove. Nemmeno io lo feci.
Era l’estate del 1548 quando lo vidi. Curioso di scoprire l’Italia, camminava assieme ai soldati spagnoli che nella calura del pomeriggio rincasavano al Convento di San Francesco dove erano alloggiati. La sicurezza della divisa calzava larga su di lui, gli occhi gli si aprivano su un pozzo scuro e profondo, le labbra morbide e carnose parevano inadatte a pronunciare le parole sgarbate che ogni sera risuonavano in Via delle Vergini. Si voltò anche lui verso di me, e sotto la luce del sole di luglio che illuminava i riflessi biondi dei miei capelli, il mio destino si incrociò in qualche modo al suo. Rividi l’ingenuità dei suoi occhi, quella notte, quando un altro corpo si muoveva maldestro su di me.
Da allora, il pomeriggio scendevo le scale di casa e attendevo in cima a Via delle Vergini l’ora in cui vederlo passare. A differenza degli altri, dopo cena non usciva a cercare qualcosa in più. Le sue notti trascorrevano entro le mura del convento.
Una sera, nel gruppo abituale dei soldati che venivano ogni notte a trovarci, ci fu inaspettatamente anche lui: defilato rispetto al gruppo e con fare poco convinto, come chi è costretto a seguire un’abitudine del posto ormai consolidata e che per quieto vivere non può ignorare a lungo. Addossata al muro e con una fiaccola in mano per farmi vedere in volto, io attendevo angosciata come ogni notte d’essere scelta. Mi passò davanti: i suoi occhi mi fissarono interrogativi, in attesa di un cenno da parte mia. “Mi vuoi?” sembravano dire timidi. Nessuno aveva mai chiesto a una merce quale acquirente volesse. Prima d’allora mi avevano presa, senza permesso.
In quella frazione di secondo le parole di mia madre mi rimbombarono in testa: “Non credere alla compassione, Ginevra, non credere a chi, mentre fai il tuo lavoro, dice di amarti”. Un brivido di terrore mi percorse la schiena madida di sudore. Scossi la testa, guardai in basso. Il battito dei suoi stivali proseguì avanti.
Lo vidi portare via Teresa: qualche anno più di me, capelli lunghi e mori raccolti in una treccia, il carattere esuberante di chi riesce a staccare se stessa dal mestiere che compie.
Andai alla fontana a rinfrescarmi: il ghigno del muso di leone da cui sbuca l’acqua prediceva l’aridità a cui il mio animo andava incontro. Con un panno bagnato sulla fronte provai a riportare i miei piedi per terra. Da allora, le notti in cui tornò mi nascosi in Vicolo di Provenzano o Vicolo del Fontino, a guardarlo portar via donne che non erano me.
A settembre, non lo vidi più rientrare in caserma. Il mio cuore si dette pace, tornò al suo quieto e regolare battito. Se c’è una regola per questa vita, è che l’ambizione di amare per noi non deve esistere, che è meglio che muoia una volta per tutte invece che lasciare qualche fiammella che ancora si oppone a diventare cenere in un focolare già nato senza speranza. In Vicolo delle Vergini ho passato la mia vita: a soddisfare i desideri degli altri, ad abbassare lo sguardo di fronte al mio”.
Ogni storia di fantasia affonda le radici nella realtà. Non scherzo, se vi dico che in Via delle Vergini si ode il dolore soffocato di tante donne costrette dalla vita a vendere il loro corpo. Percorrendola, sulla pelle scoperta del visitatore più sensibile pungono come aghi le storie che questi mattoni conservano e di cui, muti, rimangono i soli testimoni. Ognuna unica e peculiare, sono però unite da un comune denominatore: parlano di fragilità e vulnerabilità della dignità umana, nel passato e ancor oggi a così tante creature negata.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci
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