Il 5 ottobre 1554 avviene uno dei tanti episodi drammatici che caratterizzeranno i lunghi mesi dell’assedio di Siena.
Siamo all’inizio, il blocco nemico non è ancora totale e e alcune strade sono percorribili. Già il mese precedente, dopo un braccio di ferro estenuante con la magistratura cittadina (“I Quattro cittadini per distribuzione di Monte, per cavare dalla Città tutte le bocche disutili”, cioè coloro che, per cercare di resistere e salvare Siena, dove si contavano circa 24.000 bocche da sfamare, come del resto avveniva in ogni regime di assedio e in ogni epoca) e Pietro Strozzi, fiorentino fuoruscito e comandante dell’esercito, il 22 settembre circa un migliaio di persone abbandona Siena con esito positivo, ma quando si fa un secondo tentativo due giorni dopo e si cerca di allontanarne altre 200, le cose non vanno a dritto. Gli imperiali si sono accorti di quello che è successo e si sono messi sul chi va là: la mattina dopo l’espulsione i poveracci sono tutti sotto la porta della città dalla quale sono usciti a implorare che li facciano rientrare. Inutilmente. Il commissario di campo mediceo, Lione Ricasoli, scrive al duca di Firenze che “li lascian lì, e sebbene se ne faccia ammazzare, alla fine si sbandano in qua e là e passan via perché dentro non son lasciati tornare in alcun modo”. Lui, per parte sua, ordina ai capitani di usare, nei confronti degli sfollati, ogni “stranezza” perché serva da esempio e da dissuasione per il futuro .
Ma l’infausto esito non è sufficiente a far desistere da altri tentativi. Nell’occhio del ciclone ci sono, prima di tutti gli altri, i “gittatelli” (i bambini abbandonati) dell’ospedale di Santa Maria della Scala: consumano viveri e non servono a nulla. Buttateli fuori, impone lo Strozzi, perché i depositi dell’ospedale devono essere aperti a chi combatte, non a chi è solo di peso. Così, dopo una feroce trattativa su quanto grano destinare ai soldati e quanto alla cittadinanza , il 3 ottobre 1554, il rettore dell’istituzione, Scipione Venturi, è costretto a cedere e indirizza una richiesta a Giovanni dei Medici, il Marignano, comandante dell’esercito assediante: “Mi son mosso […] a suplicarla […] per il mero e puro amor di Dio e carità verso le sue povere creature, si degni concedermi per mezzo di suo salvacondotto ch’io possi cavar sicuramente fuora de la città tutti li fanciulli e fanciulline di questa piissima Casa dello Spedale, de l’età di cinque anni infino a li undici, con compagnia di alquante matrone per loro governo, che faranno in tutto ‘l numero d’intorno a bocche 300”. E’ il primo atto di un dramma che avrà i gittatelli fra i protagonisti principali di tutta questa fosca pagina di storia senese. Non si sa quale sia stata (e se ci sia stata) la risposta del Marignano, ma si sa che due giorni dopo, questo 5 ottobre, le porte di Siena assediata si aprono per far uscire, tra l’altro, 250 fra bambini e donne che li accudiscono, con la scorta di quattro compagnie di soldati.
Si legge nel “Diario delle cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555” redatto da Alessandro Sozzini: “uscirno a Porta Fontebranda circa 250 putti dello Spedale grande, dalli sei fino alli dieci anni, tutti in barcelle e cestarelle, con la scorta di quattro compagnie(….)Si accompagnorno con detti putti molti uomini e donne della Città, che avevano avuto precetto di partire; e avevano carico, infra muli, asini e cavalli, intorno alle 100 bestie. Salite che furno alla Piazza a Casciano, un miglio lontano da Siena, si derno in una imboscata (in realtà più di una per uccidere, violentare e rubare le bestie. n.d.dr.) la mattina erano tutti fuora Porta di Fontebranda (a dove si fa l’anno il mercato de’ porci), tutti a diacere per terra, con grandissime strida e lamenti. Era la più grande compassione a veder quei putti svaligiati, feriti e percossi in terra a diacere, che averiano fatto piangere un Nerone: ed io averei pagati 25 scudi a non gli aver visti; che per tre giorni non possevo mangiare né bere che pro’ mi facesse”.
Ma cosa accade? Gli imperiali li aspettano al varco dopo appena pochi chilometri, ma, nonostante l’imboscata, ce la fanno a passare; si imbattono poi in un reparto di tedeschi e anche questa volta riuscirebbero a proseguire se non accadesse l’imponderabile. Arretrando di fronte alla difesa del gruppo fatta dai soldati senesi e francesi, i tedeschi si imbattono in un reparto di spagnoli senza riconoscerli e senza essere da questi riconosciuti. Fra i due contingenti comincia un surreale scambio di fuoco amico, nel mezzo al quale finiscono i bambini. Quelli che non vengono uccisi nel conflitto, riguadagnano di corsa la strada verso la città “con visi così macilenti che parevano l’istessa fame”.
La sortita è servita solo a far massacrare un centinaio tra ragazzini, donne e qualche soldato: gli altri devono tornare a fare le bocche inutili, aspettando la prossima occasione per essere rimandati fuori. E l’occasione che si ripresenta dopo pochi giorni, il 31 ottobre, quando altri 45 bambini, di età compresa fra i 10 e i 15 anni, viene fatto uscire nella speranza che possa raggiungere un possedimento dell’ospedale distante una quarantina di chilometri da Siena. Vengono intercettati, malmenati e spogliati, tanto che tornano a Siena vestiti delle sole camiciole. Questa volta il rettore si impunta, e chiaro e tondo dice in faccia a Pietro Strozzi che è l’ultima volta che si presta a questo gioco al massacro: da ora in poi, fin quando a capo dell’istituzione caritativa ci sarà lui, non un solo gittatello varcherà il portone dell’ospedale.
Maura Martellucci
Roberto Cresti