“Per il volto che sorride, per gli studenti e il loro futuro, per poter ballare per strada, per la paura nel momento di un bacio, per cambiare le menti che sono marce, per la donna, per la vita, per la libertà”.
Sanaz Partow, attivista iraniana di Donna, vita e libertà, ha citato ‘Baraye’, la canzone di Shervin Hajipuor per ricordare i motivi per cui “i partigiani iraniani, giovani e belli, hanno detto no alla dittatura e hanno deciso di lottare e sacrificarsi”.
Il suo intervento, durante il corteo del 25 aprile senese, è forse stato il più toccante: un lungo parallelo tra la lotta per la libertà dal nazifascismo e la lotta per la libertà di oggi, quella contro il “fascismo islamico, come lo ha chiamato la stessa attivista.
Nelle parole di Partow ci sono le storie di chi si è immolato contro il regime degli Ayatollah: c’è Hadis Najafi uccisa con sette colpi d’arma da fuoco; c’è Mehdi Karami che, dopo aver ricevuto la condanna a morte, aveva informato il padre pregandolo di non farlo sapere alla madre; c’è Sarina Esmailzade, uccisa a manganellate perché si era rifiutata di cantare un inno a Khamenei. E poi Gohar Eshghi che cerca giustizia per il figlio ucciso da oltre dieci anni e che ora ha deciso di togliere il velo per protesta.
Ma ci sono anche Kian Pirfalak, Siavash, Nika Shahkarami ma anche Zakaria, Mohammad. Amin, Aram, Arnika, Pedram, Setare, Ehsan. Ed ogni nome che viene ricordato è risuonato come un cazzotto nello stomaco.
La prima martire ad essere citata però è stata Mahsa Amini, la giovane ragazza la cui morte, nello scorso settembre, ha scatenato l’ultima ondata di proteste nel Paese asiatico. Paralizza letteralmente, solo per la cruda e nuda verità delle parole, il racconto che Partow fa della sua vicenda: “Mi chiamo Mahsa, Mahsa Amini, ho 22 anni. Sono una studentessa, amo l’arte e la musica. Nel settembre 2022 ero in visita a Tehran. Stavo salendo le scale della metropolitana insieme al mio fratello quando gli agenti della polizia morale mi hanno fermata e hanno iniziato a trascinarmi nel loro furgone. Mio fratello gridava: vi prego , lasciatela, non ha fatto niente! Non siamo di qua e qua non abbiamo nessuno! Mi hanno sbattuta sul bordo del marciapiede e mi hanno portata via- le parole di Sanaz Partow – . Poche ore dopo ero in coma in terapia intensiva e dopo 3 giorni ero morta. L’immagine del mio giovane volto innocente in fin di vita, pubblicata da una coraggiosa giornalista, ha scatenato la rabbia di milioni di concittadini che erano diventati le mie sorelle e i miei fratelli. Mio fratello aveva detto siamo soli ma si sbagliava. Il mio nome oramai è conosciuto in tutto il mondo ed è diventato il sinonimo di lotta e di resistenza”.
MC