Siena

Brainrot: la malattia del pensiero nell’era digitale

Viviamo in un’epoca in cui la velocità e l’immediatezza sono diventate le nuove unità di misura della realtà. Le nostre vite, soprattutto quelle dei giovani, sono scandite da notifiche, feed infiniti e contenuti che durano pochi secondi.

In questo scenario, il termine brainrot, letteralmente “cervello che marcisce”, cattura un fenomeno sempre più diffuso: un deterioramento del pensiero critico, della capacità di concentrazione e del benessere emotivo, alimentato dal consumo costante e spesso passivo di contenuti digitali. Il brainrot non è solo una parola alla moda, ma un concetto che descrive una condizione profondamente radicata nel nostro rapporto con la tecnologia. Gli adolescenti, più di chiunque altro, ne sono le vittime principali.

Questa fase della vita, per sua natura turbolenta e caratterizzata dalla ricerca di identità, diventa oggi il terreno ideale per l’insediarsi di abitudini che inibiscono lo sviluppo personale. Ore trascorse a scorrere video brevi, meme e post irrilevanti non sono soltanto una perdita di tempo: creano una sorta di sedentarietà mentale che ostacola la crescita cognitiva e emotiva. Il fenomeno del brainrot nasce dall’incontro tra vulnerabilità umana e tecnologie sempre più invasive. Gli algoritmi che governano i social media sono progettati per catturare e mantenere l’attenzione degli utenti, proponendo contenuti facili da consumare e fortemente stimolanti sul piano emotivo.

Questo bombardamento di stimoli finisce per creare una dipendenza, che svuota il tempo e frammenta la capacità di concentrazione. La nostra mente si adatta a ciò che facciamo ripetutamente. Un uso prolungato di piattaforme che offrono stimoli superficiali, frammentati e reiterativi riduce la capacità di elaborare pensieri complessi, di mantenere l’attenzione su un compito e persino di formulare idee originali. Nel lungo periodo, si perde l’abitudine alla lettura profonda, alla riflessione e al confronto critico.

Ma non è solo una questione di quantità: il tipo di contenuti a cui ci esponiamo ha un peso determinante. Il brainrot si alimenta di superficialità: video divertenti ma privi di sostanza, informazioni frammentarie e non contestualizzate, opinioni trasformate in verità assolute. Ciò non solo deforma la percezione della realtà, ma svuota di significato il processo stesso del pensare. Il deterioramento cognitivo non è l’unico effetto del brainrot. Le sue conseguenze si estendono al piano emotivo e sociale. I giovani, sottoposti a un flusso continuo di stimoli, faticano sempre di più a tollerare il silenzio e la noia, che pure sono fondamentali per lo sviluppo della creatività e dell’autonomia. La dipendenza dagli schermi li porta a isolarsi, limitando le interazioni reali e approfondite. Questa condizione si intreccia con un senso di vuoto interiore. Nonostante l’apparente connessione garantita dai social, molti ragazzi si sentono più soli e insoddisfatti che mai. I like, i follower, i contenuti che consumano non riescono a colmare un bisogno più profondo di autenticità, appartenenza e significato. Anzi, spesso amplificano il disagio, alimentando ansia, insicurezza e depressione.

Il brainrot non è un fenomeno isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio. Viviamo in una società in cui il valore del pensiero critico è messo sempre più in secondo piano, soppiantato dall’immediatezza e dalla spettacolarizzazione. La scuola, le famiglie e le comunità spesso non riescono a offrire alternative concrete: mancano spazi e tempi dedicati alla riflessione, alla costruzione di relazioni autentiche e al confronto con la complessità del reale. Se il brainrot è il sintomo di una società iperconnessa ma mentalmente impoverita, combatterlo richiede un cambio di prospettiva.

Non si tratta solo di limitare il tempo trascorso online, ma di ripensare il nostro rapporto con la tecnologia e di proporre alternative che stimolino la mente in modo positivo. Per i giovani, questo significa riscoprire attività che favoriscano la crescita personale: leggere libri, praticare sport, dedicarsi all’arte o alla musica. Anche la scuola può giocare un ruolo fondamentale, promuovendo esperienze che allenino il pensiero critico, come il dibattito, l’analisi di testi complessi e la scrittura creativa. Le famiglie, a loro volta, devono essere consapevoli del proprio ruolo. Non si può educare al buon uso della tecnologia se gli adulti stessi ne sono vittime. Ridurre l’uso degli schermi durante i momenti familiari, proporre attività condivise e incoraggiare la curiosità sono passi fondamentali per costruire un ambiente che contrasti la superficialità.

Infine, è importante insegnare ai giovani a riconoscere e gestire il vuoto interiore. Invece di riempirlo con stimoli superficiali, dobbiamo offrire strumenti per affrontarlo: un linguaggio emotivo più ricco, modelli di vita autentici e spazi per esprimersi e confrontarsi. Il brainrot non è una condanna inevitabile, ma un segnale d’allarme che ci invita a riflettere su chi siamo e su cosa vogliamo diventare. Ritrovare il valore della lentezza, della profondità e del pensiero critico è una sfida che riguarda tutti, giovani e adulti. Solo così possiamo preservare non solo il nostro futuro, ma anche ciò che ci rende umani.

Dott. Jacopo Grisolaghi

Psicologo, Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Psicologia, Sessuologo, PsicoOncologo, Ricercatore e docente del Centro di Terapia Strategica di Arezzo
Professore a contratto Università degli Studi eCampus e Università degli Studi Link di Roma

www.jacopogrisolaghi.com
@dr.jacopo.grisolaghi

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