Ed è di nuovo un 19 febbraio. E con la tristezza del ricordo che però va sempre a braccetto con la dolcezza dello stesso ricordo e la nostalgia, come ogni anno la ‘pillola’ è per Alessandro Falassi che ci ha lasciato già dal 2014. Un signore, lo definiscono sempre tutti in modo unanime, un amico, personalmente me ne faccio un onore ma era amico di tutti, come, sempre da tutti, è riconosciuto come un Senese (la maiuscola è voluta e dovuta) di quelli che hanno amato e dato incondizionatamente alla nostra città. Innamorato della gente, delle culture, culture di tutto il mondo, dopo la laurea grazie ad una borsa di studio negli Stati Uniti, in California incontra il mondo dell’antropologia americana, totalmente diverso da quello che, negli stessi anni, si studia in Italia. Non migliore, né peggiore, ma profondamente ‘altro’ sì. Così che Alessandro (consentitemelo, era un grande amico) costruisce la sua dimensione e il suo profilo di antropologo. Elaborando le teorie e le riflessioni nelle aule di Berkeley , ma anche facendo pratica sul campo, a contatto con le realtà studiate. Commentava, ad esempio, le infinite possibilità che gli antropologi hanno di essere bellamente presi in giro dagli oggetti della loro osservazione, come quando gli era stata ammannita una sospetta ‘focaccia dell’amicizia’ che, a dire del capo di uno sperduto villaggio, era il suggello dell’accettazione dello straniero e che sarebbe stato insultante rifiutare. Il fatto è, rideva (ex post) Alessandro, che da quell’intruglio scappavano fuori inequivocabilmente le zampette e le testine di non si sa bene quali bestioline e bacherozzoli. Lui ne aveva mangiato (per rispetto, non si sa mai, e con coraggio) un pezzettino ma poi, concluso il rito sulla cui veridicità ha sempre scherzato, era andato a farsi fare la lavanda gastrica.
In America diviene grande amico di Alan Dundes, l’antropologo (morto nel 2005) che per primo era riuscito a far entrare il folklore come materia di insegnamento in un’università statunitense. Con lui sviluppa l’analisi ciò che porta nel cuore: il Palio. Perché hai voglia a diventare mezzo-americano (per anni e anni aveva alternato un semestre in America e uno in Italia): Siena, il Palio, il suo Istrice (del quale è stato anche Priore) sono sempre lì, nel DNA. Alla metà degli anni Settanta quando il sodalizio fra i due studiosi produce: “La terra in Piazza. An interpretation of the Palio of Siena”. L’analisi della manifestazione senese, per la prima volta, conosce, così, il rigore dell’approccio antropologico: se ne parla in termini di sentimento condiviso e peculiare, ma, per farlo, si ricorre agli strumenti delle scienze sociali e della stessa psicanalisi. Le analisi sul Palio, sulla Contrada, sul rito continuano poi a caratterizzare la sua produzione (il lavoro da lui curato su “Time out of time. Essays on the festival” del 1987 costituisce ancora un cardine della riflessione folklorica sull’essenza antropologica della festa; l’altro, di cui anche era stato curatore, su “Les fêtes du soileil. Celebration of the mediterranean regions”, del 2001, ebbe la prefazione di José Saramago), ma accanto a queste Alessandro sviluppa altri filoni di ricerca, come quello sul canto popolare e sul cibo.
Aveva una caratteristica, Alessandro: era un accademico anomalo. Professore all’Università per Stranieri, conosciuto in tutto il mondo, non si negava mai a chi gli chiedeva collaborazione per divulgare il suo sapere. A noi, all’Orto de’ Pecci, ha ‘regalato’ più di una cena a tema (da lui suggerita e speso realizzata con la collaborazione di un maestro della cucina come il compianto Pierluigi Stiaccini): le cene dedicate al cinema e ai divi di Hollywood; i primi che hanno fatto l’Italia; i piatti prediletti da Garibaldi e quelli legati alla biografia del suo musicista più amato: Gioacchino Rossini. Serate indimenticabili che, ripeto, ci ha regalato perché era il suo modo per dirci che capiva il nostro scopo sociale, era il suo modo di aiutarci a farci conoscere e a diffondere che cos’è la cooperativa La Proposta: voler aiutare gli altri.
E Alessandro, quando c’era da aiutare gli altri non si negava mai. Ma lo faceva sempre a suo modo: in silenzio. Perché quando si vuol fare davvero del bene non si sbandiera ai quattro venti. Si fa e basta. Mangia d’Oro, nel 1991, Alessandro, dal quel 19 febbraio del 2014, ha lasciato un grande vuoto che a livello culturale cittadino si percepisce ogni anno con maggiore forza sempre maggiore. E a livello personale si percepisce ogni volta che ci mettiamo al computer per parlare di Palio e di Siena. Chi scrive ha accanto “La Santa dell’Oca”, usato non più tardi di qualche giorno fa per scrivere di Santa Caterina. Un’ultima annotazione. La Sovrana Contrada dell’Istrice ha appena intitolato ad Alessandro Falassi la bellissima e ricca biblioteca, collocata nei nuovi spazi museali, che ha riordinato ed inventariato in maniera professionale e invidiabile. Ad Alessandro, sono sicura, sarebbe piaciuta.