In questi giorni ho più volte sentito parlare del Coronavirus come della “peste” dei nostri tempi, soprattutto quando le Istituzioni mondiali della Sanità lo hanno classificato come “pandemia”, una parola che credevamo davvero scomparsa da tanti anni.
Molti sono gli elementi di contatto che inevitabilmente inducono al paragone. Innanzitutto il fatto che il Covid19 colpisca la parte respiratoria come alcune forme di peste polmonare: tra l’altro si dice che l’abitudine di dire “salute!” quando una persona starnutisce, discenda proprio dal fatto che una delle epidemie più terribili dell’inizio del 1500 si manifestava proprio come un forte raffreddore. Quindi quando qualcuno starnutiva, si esprimeva per educazione l’auspicio “salute!” per augurare che si trattasse solo di una banale infreddatura. Esattamente quello che succede in questi giorni: se senti uno starnuto ti vengono i brividi.
E poi l’adozione di massa dei guanti e delle coperture al viso. Certo noi non usiamo più quei bizzarri “becchi” noti come le “maschere della peste”, ma i commessi dei supermercati o delle farmacie sono bardati più o meno come un cerusico manzoniano. Senza dire che per girare si è costretti ad adottare delle certificazioni che assomigliano alle antiche “bolle di sanità”
Uno degli aspetti che più colpiscono il nostro “immaginario” è la virulenza della malattia: basta un contatto e si verifica la trasmissione, che genera una dinamica di contagio estremamente rapida ed aggressiva. E quindi le raccomandazioni che vengono emanate dalle Istituzioni sono le stesse che troviamo negli editti emessi ai tempi delle antiche epidemie che sono giunti fino a noi, conservati in qualche fondo d’archivio.
Noi a Siena siamo esperti di Peste: dal 1324 al 1630 le cronache annoverano in provincia ben 37 ondate epidemiche, con un intervallo medio di 8/9 anni tra una e l’altra. Tra queste la più terribile di tutte fu nel 1348, lo sanno tutti, anche i bambini.
Al di là delle stime fantasiose di qualche cronista dell’antichità, un’idea abbastanza precisa delle proporzioni dell’immane tragedia che si abbatté sui senesi ci viene fornita dal prezioso Obituario della Chiesa di S. Domenico, l’unico rimasto di quel periodo. A differenza di tutte le migliaia di poveri appestati anonimi gettati in fretta e furia nel carnaio dell’Ospedale o nelle fosse comuni aperte in città, in esso vennero accuratamente registrati il nome, la famiglia di appartenenza, il mestiere e in molti casi anche il domicilio dei defunti sepolti nella Basilica che potevano essere esponenti del clero, nobili, o comunque persone di condizione elevata, mercanti, maestri artigiani e anche persone del popolo minuto, ma a condizione della loro appartenenza a confraternite che avevano proprie cappelle all’interno della chiesa o nei suoi camposanti.
Se in tempi “normali” non si andava al di là di trentacinque sepolture all’anno, per il 1348 contiamo centoquaranta morti solo nelle prime diciotto settimane di epidemia, dalla fine di aprile alla metà di agosto. A quel punto la mano del frate addetto al camposanto si fermò, e si era al culmine del fenomeno epidemico: forse il pover’uomo era morto anche lui, oppure, travolto dal ritmo delle sepolture (30 – 35 al giorno) fu costretto a gettare la penna; o forse, ed è la cosa più probabile, cessò il trasporto dei morti in S. Domenico. La gente che moriva nelle case, veniva gettata nuda per le strade ammassata per ogni dove e non fu più possibile fare distinzioni, anzi, come disse un cronsta, “el padre abandonava el figliuolo, la moglie el marito et l’uno fratello l’altro (…) et non si trovava chi seppellisse né per denari, né per amicitia…”
Dall’analisi delle registrazioni sull’Obituario, appare subito chiaro che la peste strinse Siena come una morsa da nord a sud: nei primi giorni di epidemia sono, infatti, “schedati” in bella calligrafia Tommaso Ghezzi, calzolaio, e Angela moglie di un certo Lippo, speziario, entrambi “de S.Martino“, e Giovanni Bernardi e “domina Flora”, sua moglie, “de Camollia“. Seguono le registrazioni di defunti provenienti da tutte le zone della città, a testimonianza che la malattia si era presto diffusa a macchia d’olio, provocando – è oggi possibile valutarlo con buona approssimazione statistica – fino ad otto/novecento morti al giorno.
Che differenza c’è tra la velocità del contagio di allora con ciò che sta succedendo oggi?
Abbiamo sovrapposto la curva della progressione osservata nelle sepolture di S. Domenico nelle prime cinque settimane di malattie nel 1348, facendo l’ipotesi che fossero un campione rappresentativo di quello che succedeva in tutto il territorio senese, con quello che è successo dal 24 febbraio al 13 marzo 2020 in Provincia di Siena.
Nelle prime quattro settimane la somiglianza degli andamenti è davvero forte. Certo, per fortuna con numeri ed effetti totalmente diversi: la Peste del 1348 partì subito dai primi giorni con valori di contagio molto alti, con tassi di mortalità molto aggressivi. Ma la progressione rappresentata dalle percentuali di crescita giorno per giorno è molto simile.
E se questa somiglianza dovesse continuare, considerando l’impennata che si ebbe nella quinta settimana di malattia, si capisce quanto sia stato opportuno, da parte del Governo, emanare ora forti raccomandazioni ed anche divieti.
Con la speranza di tutti noi che questo azzardato paragone tra storie lontane resti solo una suggestione, un esercizio mentale, per far passare più velocemente le lunghe, ed a volte noiose, ore casalinghe di questi giorni.
Duccio Gazzei