In occasione del decimo anniversario di Pontificato di Papà Francesco il cardinale Augusto Paolo Lojudice ha proposto una sua riflessione che è stata pubblicata dal quotidiano Avvenire oggi.
«Ma lei dà l’elemosina? ». «Sì, padre!». «Ah, bene, bene. E, mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina? ». «Ah, non so, non me ne sono accorto». «E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?» . È uno degli aneddoti narrati da papa Francesco, che hanno orientato un percorso che la Chiesa ha intrapreso e che continuerà, almeno spero, nel tempo.
Ricordo come fosse ieri che quando fu pronunciato il nome del cardinale Bergoglio, appena dopo la sua elezione a Vescovo di Roma, quel 13 marzo 2013, 10 anni fa, ebbi un sussulto; avevo sentito parlare di lui da un giovane seminarista, che lo aveva conosciuto nei suoi viaggi a Roma, presso il collegio argentino. Non lo avevo mai incontrato: ne avevo solo sentito parlare ma mi è sembrato di conoscerlo da tempo, di averlo quasi come “amico”. Ho percepito, senza nessun elemento che me lo confermasse, che avrei avuto a che fare con lui. Ovviamente non potevo nemmeno immaginare che solo due anni dopo mi avrebbe nominato suo ausiliare per la diocesi di Roma. Avevo intuito che era presente in lui quella idea di Chiesa da me sempre immaginata ma che non avrei pensato di vedere nella mia vita: una Chiesa “avanti”, una chiesa fuori dai vecchi schemi, meno formale, più attinente alla realtà, più “giovane”. Ho capito anche che ogni cosa é a “suo tempo”…. e nel momento della nomina di papa Francesco ho cominciato a comprendere che “era giunto quel tempo”.
Papa Francesco in questi 10 anni ha coniato dei termini, delle espressioni che sono diventate parte della nostra vita spirituale e della nostra pastorale. Una delle più note è: “ pastori con l’odore delle pecore”.
Fu pronunciata nella prima messa crismale celebrata in San Pietro alla presenza di centinaia di sacerdoti: un modo per descrivere l’identità del sacerdote in quel percorso sinodale che avremmo iniziato dopo ma che certamente meditava nel suo cuore da tempo. Pensare una Chiesa diversa, più evangelica, più radicale, più legata alla persona e al pensiero di quel Gesù di Nazareth e a come Lui l’aveva voluta. Un’altra espressione è “ Chiesa ospedale da campo”, luogo dove realizzare non solo grandi e belle cerimonie, sontuosi eventi, oceanici raduni ma anche e soprattutto dove accogliere i “feriti delle grandi battaglie”, delle guerre della vita quotidiana in tutte le parti del mondo. Quell’immagine è rimasta cara tutti noi: è ormai divenuta uno slogan da cui non possiamo staccarci, che ci presenta la Chiesa come luogo dove approdare sicuri, dove sentirsi accolti, dove poter essere curati dalle ferite: è una immagine che oggi, purtroppo, esprime una drammatica attualità: quella della ormai nota “ terza guerra mondiale a pezzi”. Perché non è solo una immagine simbolica ma reale. Lo è nelle migliaia di mamme e bambini che abbiamo accolto in tutte le diocesi italiane a causa di questa tragica guerra che non finisce di seminare morti e sofferenze e che papa Francesco non tralascia mai di ricordare invitandoci a pregare insieme alle altre dolorosissime situazioni, calamità naturali e, pochi giorni fa, il terribile e mortifero naufragio di Crotone.
« Non ti dimenticare dei poveri! »: fu questo l’invito che un amico fraterno, il cardinale francescano Claudio Hummes, fece a Jorge Mario Bergoglio al momento dell’elezione a vescovo di Roma e successore di Pietro. Papa Francesco non ha dimenticato quell’invito, ne ha fatto anzi una delle priorità del magistero della parola e della vita, che offre con fedeltà quotidiana alla Chiesa. Nella mia vita sacerdotale ho sempre pensato che se non incontri da vicino la povertà non comprendi la vita. Ho cercato di far incontrare la povertà ai giovani che ho avuto nelle parrocchie, e anche ai seminaristi che accompagnavo, per far capire e affrontare meglio la loro vita, per scoprire e discernere la vocazione.
Nei miei ricordi di bambino ce n’è uno che spesso mi torna in mente: quello di una casa, semidiroccata, con i vetri rotti, di fronte alla quale passavo ogni volta che uscivo dalla mia. Non credevo che fosse abitata. Ma una volta, chiedendo a mia madre se dentro ci fosse qualcuno, mi disse: “si, ci vive una mamma con 4 figli…” “Ma perché non hanno una casa più bella?” le domandavo… “Perché non hanno soldi a sufficienza per poterla avere… devono accontentarsi di quella…”. Rimase stampata nella mia mente questa risposta: non capivo il perché poteva esserci qualcuno che non aveva nemmeno i soldi per comprarsi, o affittare una casa… Da sempre ho continuato ad interrogarmi su certi “perché”… non sempre sono riuscito a rispondere. C’è un brano che mi porto dentro come una pietra miliare e che mi sintetizza, insieme alle beatitudini, tutto il Vangelo: è Matteo 25,3146; ne ho scelto una frase come motto del mio stemma episcopale.
Quando la vita ti porta a confrontarti, a vivere, a incontrare, a farti carico di grandi problemi, gravi disagi, situazioni estreme, ti restano dei segni indelebili, guardi la realtà con occhi diversi. Il resto, le situazioni ordinarie, normali o anche le discussioni che possono venire fuori nella quotidianità, contesti che non riguardano problemi gravi, ti sembrano inezie, fatti di poco conto, situazioni sulle quali non val la pena nemmeno soffermarsi troppo né perder tempo. Papa Francesco, che nelle periferie di Buenos Aires ha toccato con mano tutto ciò, disagi all’interno delle baraccopoli, bambini che non possono crescere in maniera adeguata, anzi segnati fin dalla nascita da un tragico “destino”, donne che subiscono violenze continue e tanto altro, è stato “impregnato” da tutto ciò e continuerà a portare questo suo modo di essere in tutto il suo pontificato
Card. Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e vescovo di Montepulciano Chiusi-Pienza