Il 15 aprile 1285 la Compagnia dei Laudesi o di Or San Michele (Confraternita fiorentina fondata nel 1244 da San Pietro Martire) commissiona a Duccio di Buoninsegna, la tavola raffigurante la “Vergine in trono con il Bambino e sei angeli inginocchiati”, meglio nota come “Madonna Rucellai”. Al momento della commessa Giotto (nato intorno al 1250) aveva circa trent’anni e la tavola è di tale pregio che per molto tempo è stata attribuita a quello che, probabilmente, fu suo maestro: Cimabue. L’equivoco viene da lontano perché già un commentatore Trecentesco della Divina Commedia la riferiva a Cimabue. Giorgio Vasari, nel XV secolo, appoggia questa tradizione “colorendola” di un aneddoto. Scrive Vasari, che a volte fa più danni della grandine, che quando Carlo d’Angiò si trovava a Firenze, andò a visitare la bottega del celebre artista fiorentino, Cimabue appunto, e lì vide la tavola quasi ultimata. L’opera mise una tale gioia nel sovrano e nei suoi vicini che la zona prese il nome di “Borgo Allegri” (l’odonimo, logicamente, si deve ad una famiglia importante che lì aveva i suoi possedimenti). La tavola, una Maestà, dunque una Madonna con in braccio Gesù, In origine collocata nella cappella della Compagnia (detta poi Cappella Bardi) nel 1591 viene spostata nella Cappella Rucellai, una delle più importanti casate fiorentine di quegli anni, dalla quale prende il nome. La cappella, attualmente di Santa Caterina, si trova nella Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze.
L’equivoco sull’attribuzione a Cimabue arriva alla fine dell’800 e lo compiono tutti i maggiori storici dell’arte, fino a quando, nel 1899, l’austriaco Franz Wickoff, la riferì, per primo, a Duccio data l’esistenza di un documento del 1285 che ne attesta la commessa, atto, peraltro, già pubblicato da Vincenzo Fineschi nel 1790, ma completamente sottovalutato. Ancora negli anni Venti del secolo scorso vari studiosi cercano di conciliare la tradizione con l’evidenza parlando di una collaborazione tra i due artisti: un maestro e un allievo. Ora bisogna dire che Cimabue, negli stessi anni, stava lavorando lui stesso ad due tavole di uguale soggetto: la Maestà del Louvre e la Maestà di Santa Trìnita.
Oggi la Madonna Ruccellai è unanimemente attribuita a Duccio. La pala, nel 1948, viene trasferita agli Uffizi, dove si può (si potrà appena possibile) ammirare ancora oggi, insieme a quella di Cimabue.
Duccio dipingerà la Maestà per il Duomo di Siena ventisei anni dopo ma è impressionante, nonostante la maggiore ed evidente maturità pittorica acquisita dall’artista, l’affinità tra i due dipinti: nella postura della Vergine, nelle vesti, nei colori utilizzati. Nell’umanizzazione dei personaggi. Secondo Carli, Duccio è riuscito a “conciliare perfettamente l’ideale bizantino del potere e della dignità ieratica, con l’innata tenerezza e il misticismo dell’anima senese”. Niente in Duccio è casuale. Tutto ha un significato.
Maura Martellucci
Roberto Cresti