Il 20 aprile del 1633 muore lo scultore e architetto Flaminio del Turco che lega la sua fama, il suo nome e la sua opera, in modo particolare, alla Collegiata di Santa Maria in Provenzano. E ci lavora per così tanti anni, quasi quaranta, quasi un’intera vita, da sentirla come la sua creatura, la sua missione: creare un santuario degno di accogliere quella statua miracolosa che sta tanto influenzando la Siena di questi anni. Ma cominciamo dall’inizio. Flaminio, senese, è figlio d’arte: suo padre, Girolamo, è scultore e la sua famiglia esercita l’arte almeno dal secolo precedente, visto che è attestato un Bernardino Del Turco, scalpellino, nel 1541. La sua famiglia risiede nella contrada di San Pietro a Ovile e la sua opera è attestata dal 1581. Scrivono di lui: “fu scarpellino ma tanto intendente d’architettura, e di lavoro di marmi, che in Siena ha fatto più di settanta altari ricchissimi di pietre, e vaghissimi di disegno, e di lavoro pulitissimi”. Solo per fare alcuni esempi, sono suoi altari in Sant’Agostino (l’altare maggiore, l’altare Bargagli, quello Biringucci) oppure in San Francesco (cappella dei Bandinelli e l’altare Tolomei). E non si possono non ricordare almeno il restauro della torre di San Domenico oppure la porta della Compagnia di San Giovanni Battista sotto il duomo e la loggia sopra l’università dei notari.
Ma c’è Provenzano.
Siamo nel 1594 e Papa Clemente VIII concede la possibilità di costruire una chiesa degna di accogliere l’icona della Madonna che, in virtù delle “grazie” che concede, ormai da decenni, sta diventando oggetto di una forte devozione. I Medici, ormai governatori di Siena, indicono un vero e proprio concorso, nel 1565, tra architetti e ingegneri e “vince” il progetto elaborato dal monaco, sempre senese, don Damiano Schifardini. Ora, dato che Schifardini, essendo anche precettore dei figli del Granduca, vive a Firenze, la direzione dei lavori (ma la sua influenza andrà ben oltre) viene affidata da Ferdinando deI Flaminio Del Turco. E’ lui, infatti, a capire che la posizione ipotizzata da Schifardini, più arretrata dall’attuale tanto da racchiudere in sé la casa dei miracoli, non avrebbe retto per motivi di staticità ed avanzarla verso una terreno più solido, nella posizione nella quale la vediamo oggi. Così, il 20 agosto del 1595 venne posta e benedetta la prima pietra in corrispondenza del pilastro delle fondamenta che guardava verso San Pietro a Ovile e, oltre ad “alcune medaglie coll’impronta della Madonna di Provenzano e in cartapecora i nomi degli Operai (…), maestro Flaminio vi pose 20 mezzi grossetti d’argento con l’impronta del Serenissimo Ferdinando I, (…) ed inginocchiatisi invocarono il nome santissimo di Dio e di Maria”. I problemi che dovrà affrontare nel realizzare il santuario saranno molti (la modifica della cupola ne è un esempio), nonostante tutto, nell’ottobre del 1611, la futura Collegiata viene inaugurata, anche se, di fatto, occorreranno molti decenni affinché venga totalmente completata restando un “cantiere aperto”. E Flaminio è lì: suo l’altare maggiore (commissionato nel 1617 e l’ultimo pagamento registrato porta la data del 28 maggio 1627), così come vengono commissionati a lui la realizzazione degli altari Piccolomini (1629) e Borghesi (1630).
Intanto lavora fuori Siena con Flavio Piccolomini, Vescovo di Massa Marittima (guarda caso colui che poi gli farà realizzare l’altare di San cerbone peroprio in Provenzano), costruisce l’altar maggiore del duomo di Massa. E’ suo il modello della fabbrica della chiesa di San Paolo, a Siena, ed è attestata la sua mano per la decorazione interna, le colonne e il cornicione (1616). Progetta la chiesa di Santa Lucia a Montepulciano, dove è chiara, nella facciata, la derivazione da Provenzano.
Muore nel 1634 e vuole essere tumulato nella “sua” Provenzano. Sorgerà anche una controversia con la famiglia Buoninsegni per l’assegnazione delle sepolture, ma alla fine ebbe la meglio perché ancora oggi riposa proprio nella sua più importante creazione, in una tomba contigua all’altare del Crocifisso. Quando potrete tornare nella Collegiata recatevi nel transetto di sinistra e sul pavimento, ancora a sinistra, guardate a terra e onorate la tomba nella quale riposa, insieme ai corpi dei suoi familiari, colui che, da “capo degli scalpellini”, divenne “il migliore architetto senese del suo tempo”. E questo, lo deve sì al suo talento, ma, chissà, forse anche alla Madonna dei Miracoli che, nei secoli, non ha mai lasciato.
Maura Martellucci
Roberto Cresti
Roberto Cresti