Giardino Alessandro Falassi: inaugurazione con sorriso per un uomo che sapeva sorridere

C’è un momento di imbarazzo. Il velo che nasconde la lapide con l’intitolazione del giardino di Camollia a Alessandro Falassi, nel momento in cui vengono sciolti i nastri dal sindaco di Siena e dalla vedova, Chiara Taddei, si imbroglia nella punta della colonna e non c’è versi di farlo scendere.

Notoriamente, né la professoressa Fabio, né Chiara sono di statura adatta per giocare da centrale sotto canestro, e allora ci provano l’onorando priore, Emanuele Squarci e il rappresentante dell’Università per Stranieri (che ha tenuto il breve discorso di commemorazione), il professor Pietro Cataldi, che sono, invece, dotati di un significativo numero di centimetri in più e che, diciamo, come ala-guardia se la potrebbero anche cavare dignitosamente.

Niente da fare: l’infame resiste, e mentre ormai tutti ridono del buffo contrattempo, si muove il Paggio Maggiore della Sovrana che, con la punta dell’asta del bandierone, rimuove l’infame, dispettoso panneggio fra gli applausi dei presenti.

 

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E tutti abbiamo pensato a quale battuta sorniona avrebbe tirato fuori Alessandro Falassi per siglare con ironia sdrammatizzante, l’imprevisto. Perché Alessandro aveva una dote rara: era un grande uomo di cultura che sapeva ridere e ridere anche di se stesso, non confondendo mai la rigorosa serietà con la grottesca seriosità. Amava presentare la gravitas sempre accompagnata dal contorno di levitas che rendeva tutte le sue cose (anche quelle complicate) assimilabili con un sorriso. Uno capace di narrare la storia dell’unità d’Italia, ad esempio, leggendola attraverso la filigrana dei primi (no: non gli eroi o i campioni, ma i primi piatti) perché (da fine antropologo qual era) sapeva come raccontare la storia della condizione umana attraverso la cucina, l’elaborazione del gusto, la costruzione della “cultura” del cibo e la trasformazione della “natura” dei prodotti.

Chi lo ha conosciuto, se lo ricorda, addobbato di grembiulone e affiancato da due altri personaggi eccezionali quanto lui, il professor Giuliano Catoni e il cuoco Pierluigi Stiaccini, a ricostruire, davanti ai fornelli, i piatti legati alla figura di Garibaldi (imposero a tutti noi commensali di metterci a tavola indossando rigorosamente una camicia rosso-garibaldino) o a quella di Rossini (musicista del quale Falassi era un cultore), mixando pagine di storia, di tradizione culinaria, di arte musicale. Ci voleva del genio per mettere in piedi performance del genere e tutt’e tre quelle persone il genio ce l’avevano, eccome.

Sapeva fare ironia (ma ironia di classe: astenersi beceri e volgari, ve lo sareste giocato forever) su tutto. Anche su di sé: personalmente ricordo uno scambio di affettuose e divertite battute, quando inaugurò il cavallo capolavoro di Ghia, sulla necessità di esorcizzare l’eventualità che un cavallo immobile toccasse alla sua Contrada, e ricordo altrettanto quando riconosceva che i suoi “informatori” autoctoni, durante le sue campagne di studio, qualche volta lo avevano preso in giro. Non saprei dire più in quale occasione e con quale comunità tradizionale si trovò a vedersi mettere davanti una specie di focaccia dalla quale spuntavano riconoscibilissimi i corpi di insetti di chissà qual genere. E’ la nostra torta dell’amicizia, gli disse il capo villaggio, ed è dovere degli ospiti accettarla, se non vogliono farci un affronto.

Alessandro – raccontava – la ingurgitò, salutò e andò a cercare il primo medico che gli facesse una lavanda gastrica. Lo narrava bofonchiando divertito, lui per primo, di quella che era stata una consapevole presa per i fondelli in una rappresentazione alla quale egli, tuttavia, non si era sottratto. Il beffatore era stato sgamato, ma il beffato non si era sottratto al gioco.

Non era stata programmata, ma la scenetta del velo riottoso a lasciare la colonna è venuta, pertanto, involontariamente, bene e, a suo modo, ha completato nel giusto tono leggero il ricordo affettuoso e commosso di un’intera città nei confronti di uno dei più grandi senesi che essa abbia avuto.

Duccio Balestracci

(si ringrazia per le foto Maura Martellucci)