Nei giorni scorsi, in occasione dei 212 anni di quel triste giorno per la città, il Corriere di Siena ha ricordato la violenza che si scatenò in un episodio che oggi troppo spesso viene dimenticato ed ignorato. I fatti si inseriscono all’interno di una storia più grande, quella dei soldati francesi che portavano in giro gli ideali della loro Rivoluzione annettendosi territori e interi Stati. Il Granducato di Toscana fu l’ultimo a cadere, nell’aprile del 1799. Nel maggio ad Arezzo scoppia una rivolta di stampo anti-francese che coinvolge grande parte della popolazione. I soldati transalpini vengono cacciati dalla città, poi la rivolta si estende alla provincia aretina e infine giunge a Siena nella già ricordata data del 28 giugno. Qui è il caos: i francesi non riescono a fermare le bande del “Viva Maria” (così chiamate perché scandivano e ripetevano questo urlo quando partivano all’assalto) e sono costretti ad asserragliarsi nella Fortezza Medicea. Gli aretini possono quindi scorrazzare in città, facendo violenza su coloro che a loro dire avevano collaborato con i francesi e dirigendosi poi verso il ghetto. Anche qui si consuma la violenza: vengono uccisi tredici ebrei, alcuni di loro trovano la morte in Piazza del Campo, dove vengono bruciati vivi assieme all’Albero della Libertà, uno dei simbolo del dominio francese.
Il testo Il libro scritto da Santino Gallorini ripercorre questa storia. E lo fa con documenti assolutamente inediti che da un lato offrono nuove rivelazioni ma dall’altro mostrano assai bene la gravità dei fatti che avvennero a Siena. “Il 1799 – scrive l’autore – può essere considerato uno spartiacque nella storia della comunità ebraica senese. Nello stesso anno in cui venne emanato un decreto che rendeva gli ebrei pari nei loro diritti agli altri cittadini del Granducato, paradossalmente si verificò la peggiore persecuzione nella storia dell’Università ebraica senese. La comunità – prosegue Gallorini – aveva aderito con cautela alla causa dei francesi ’emancipatori’ e portatori di libertà. Pochi a Siena aderirono al partito francese e la nazione ebraica pagò affinché non fosse collocato in ghetto l’albero della libertà. La cautela era dettata soprattutto dalla volontà di mantenimento del tradizionale assetto comunitario. Tale atteggiamento non bastò comunque a preservare gli ebrei senesi da violenze e saccheggi”.
Le memorie Ci sono nomi e cognomi in questo testo di Santino Gallorini e, attraverso le memorie redatte dalla comunità ebraica di Siena, anche il racconto dettagliato di ciò che avvenne in città il 28 giugno 1799.
“Furono assassinati 13 ebrei – scrive l’autore del libro – nella totale indifferenza dell’arcivescovo Chigi-Zondadari che solo il giorno successivo alla strage uscì dal suo palazzo. Dovettero passare diversi giorni prima che gli ebrei potessero seppellire i loro morti. Da allora e per molti anni la comunità ha ricordato questo episodio con uno speciale giorno di digiuno”.
Ed ecco il racconto dettagliato riportato nel testo, ripreso dalla memoria redatta dai massari della comunità ebraica nell’ottobre del 1847 per il Governatore della città di Siena: “Il dì 28 del mese di giugno dell’anno 1799 fu un giorno di pianto e di lutto per la Nazione Israelitica di Siena. Entrarono in questo giorno in detta Città i Briganti, che così appellare si possono per essere una masnada senza disciplina, senza armi regolari, senza legittimi e capaci condottieri (…). S’inoltrarono nel recinto di detta Nazione, e penetrarono nel Tempio della medesima. Colà trovarono quattro individui ivi rifugiati per sottrarsi alla popolare furia, li strapazzarono, e li portarono a morte, non contenti di ciò spezzarono con delle accette le belle porte dell’Arca Santa ove stavano rinchiuse le Sacre Bibbie. Queste vennero gettate con disprezzo per terra, svoltolate, trascinate, lacerate e calpestate. Gl’arredi sacri di valore involati, le lampade rovesciate e rotte, tutto ispirava colà un tetro orrore e sembrava la distruzione del Tempio di Gerusalemme! Nel mentre che questo massacro accadeva nel Tempio, altri dei suddetti si occupavano ad un saccheggio generale nelle case e botteghe degli Israeliti. Gli orecchini e vezzi di smaniglie strapparono dall’orecchie e collo delle donne con rotture e ferimenti, le mobilie in pezzi, argenti, ori e biancherie, tutto si portarono via ma sempre con l’intonare Viva Maria! Trascinarono ancora dei vecchi settuagenari e donne grondanti di sangue nelle pubbliche carceri. Una donna si affacciò al balcone per ricercare la famiglia, con un colpo di fucile venne uccisa. Altro povero vecchio si occupava di fare la barba ricevè altro colpo di fucile e venne ucciso. Contemporaneamente de fuori del detto recinto si trucidavano nella pubblica Piazza altri di Israeliti ed ancora vivi si bruciavano assieme a l’arbolo della libertà. Le voci dell’umanità e della religione erano spente. Un povero vecchio settuagenario che tornava dal Monte di Pietà per portare gli alimenti alla sua famiglia si rifugiò nella Collegiata di Provenzano. Il custode della medesima sebbene religioso e che doveva conoscere che il sacro luogo dà asilo a tutti lo espulse a forza dalla Chiesa, e nella Piazza corrispondente alla medesima ne venne dal popolo trucidato e bruciato”.
I senesi che aiutarono gli ebrei Ci furono anche dei senesi che si distinsero per l’aiuto che offrirono alla comunità ebraica, oggetto della terribile violenza di cui stiamo parlando. Ancora una volta è il testo scritto come memoria dai massari della comunità nel 1847 a ricordare quanto avvenne. E in questo caso rende merito a quelle persone che vollero aiutare quanti si trovarono a subire questo attacco: “A questa lacrimevole descrizione – si legge nel testo – non ometteremo di fare il giusto elogio a quei Cattolici individui che si sono destati in vantaggio della stessa Nazione in tale luttuosa circostanza. L’ottimo e venerabile signor Cavaliere Carlo Belanti accolse nel suo Palazzo un certo Israelita Raffaello Levi, lo trattò urbanamente per più giorni e si degnò di venirne ad avvisare esso medesimo a notte avanzata del medesimo giorno la famiglia che già lo credeva perduto e così liberò il Levi da certa morte. Anche il buon cittadino Silvio Lanzi, sedato alquanto il primo tumulto, mosso da vero zelo di umanità accorse nel detto recinto e con le sue ottime maniere gli riuscì salvare degli oggetti e li restituì ai proprietari. Fu pure il buon Lanzi nella Deputazione nei giorni successivi per provvedere ai bisogni dell’individui della nazione. Merita elogio anche un certo Luca Marcetto pescaiolo che anche esso in questa lacrimevole circostanza fu giovevole col andare ad insinuare Monsignore Zondadari, Arcivescovo della Città, a muoversi perché cessasse il massacro, e le di lui voci vennero posteriormente da Monsignore esaudite e si portò ad arringare il pubblico”.
Gennaro Groppa
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