Chissà cosa avresti detto di questo anno e passa, della pandemia, di questo “virusse”. Chissà come lo avresti soprannominato (tu che davi soprannomi a tutti e tutto) per il fatto che anche quest’anno (due a fila!) non correremo (siamo realistici) il Palio, e speriamo di non “saltare” (di nuovo) la festa titolare. Come lo avresti chiamato un virusse che non ti avrebbe fatto annodare il fazzoletto blu al collo per nessun motivo. Quattro anni volati da quel 22 aprile del 2017. Ho avuto l’onore di scrivere spesso di te in questi mesi e sempre ho scritto che se il Nicchio era il tuo (secondo) amore, il tuo essere sacerdote era un qualcosa di profondo e intimo. Le ho sempre viste, queste due facciate della tua vita come l’esteriorità sulla quale si può (anche) scherzare (e potrei riempire fb di aneddoti più o meno conosciuti, più o meno personali) e l’interiorità che era la tua vera natura. Il bene che si fa in silenzio, l’aiuto che si dà in silenzio, il non sbandierare il mettersi al servizio degli altri. Si agisce, non si dice. E tu di bene ne hai fatto tanto. Nella tua vicinanza, nelle tue parole. Materialmente, ma questo è affar tuo e del “tuo vicino di casa” di adesso.
Come sei arrivato “da grande” alla tua vocazione, tu, impiegato del Monte, io sono arrivata “da grande” nel Nicchio ma, da subito, ho sentito il tuo affetto e il tuo farmi essere una di voi. Una di noi. Ti risento nelle omelie delle cerimonie degli amici più cari, le battute che nemmeno nelle occasioni più “protocollari” riuscivi ad evitare. Ti rivedo ridere accanto a Francesco che si presentò in bermuda al suo matrimonio (tranquilli, poi si vestì da sposo, sennò gli anni a venire accanto ad Annalisa pòro a lui!) dove io avevo la “panca dell’invalida” perchè mi ero rotta la vertebra. Ti ricordo quando battezzavi il figlio di un amico e con la promessa di educarlo nella fede cattolica non mancavi di aggiungere: e nicchiaiola. Ti ricordo nelle parole del momento forse più difficile che, tutti insieme, come sempre, abbiamo dovuto affrontare. Sole e gioia, pioggia o lacrime. Sapevi sempre come esserci nel modo giusto. Se in te si cercava il sacerdote “classico” si doveva fare uno sforzo di immaginazione perché, all’apparenza esteriore, tutto potevi sembrare fuorché un prete. Per capire il tuo “mestiere” bisognava guardare bene oltre magliette un po’ ciancicate ma blu, o, appena raffrescava, oltre la giacca a vento (freddoloso com’eri), sempre la stessa, sempre blu, perchè solo da vicino si sarebbe visto il piccolo crocifisso che non toglievi mai. Ma se si cercava Salvatore, come ti chiamavo io o, semplicemente, “Tore”, come ti chiamavano altri, ti trovavamo subito. E non solo gli amici del Nicchio ti ricordano, quelli che ti erano accanto e condivideranno questo sentire, ma anche quelli con cui tu condividevi le azioni benefiche, oppure i tuoi viaggi a Lourdes (anche se dopo un certo anno leggenda vuole che il fazzoletto del Nicchio tu lo abbia lasciato a casa durante quei viaggi). Chi parla di te ne parla con affetto, rispetto e col sorriso. Credo che questo avresti voluto. Non ti hanno fatto fare “vita facile” a volte, ma ti ho sempre ammirato perché hai fatto comunque come volevi, pur nell’obbedienza (quasi). Uno dei pochi che ci è riuscito. Ci hai fatto vedere, tu Correttore del Nicchio, come si può essere sacerdote di tutti. Perché che uno fosse credente o meno te ne importava fino a un certo punto. Anzi proprio punto. Certo, nel cuore avrai magari pregato perché la Luce entrasse anche in quelle persone che non credono, ma, di fatto, quello a cui tenevi era la comunità dell’essere e del sentire: “se andiamo tutti nella stessa direzione importa relativamente da dove ciascuno viene e con quale animo va. L’importante per te era comunicare, soprattutto ai giovani, i valori dell’etica, della religione, della memoria comune, del senso di solidarietà, dell’amore anche per un qualcosa di immateriale e incomprensibile, come la Contrada. Perché quando hai sofferto, gioito, sperato, esultato e pianto in nome di quei colori con qualcuno, quel qualcuno è tuo fratello per la vita. Qualunque cosa pensi, quali che siano le sue altre (secondarie) identità” (cit.)
E ora, mentre si fa tardi e scrivo penso: mi avresti capita adesso? ti avrei sorpreso sotto certi aspetti. Per altri no, ne abbiamo parlato spesso, quando mi vedevi passare da Santo Spirito e mi chiamavi in casa per prendere il caffè, mandandomi poi via carica di barattoli di marmellata che ti avevano regalato o con un paio di bottiglie del famoso vino di Carmignano, quello con cui ci “lustravamo” durante le indimenticabili cene davanti al tuo camino. E guai a non esserci (tre volte mi facesti telefonare una sera che ero impegnata con mia mamma e il dolce dovetti correre a mangiarlo: “ti sei salvata in tempo”, mi dicesti)! Che stanotte ti arrivi il blu dei fazzoletti che, da quaggiù, sventoliamo per te. E spiegaglielo costassù che la gioia di essere in Paradiso è uguale a quando si vince un Palio. Era la metafora che usavi per far capire anche ai più piccoli (qualsiasi colore avessero annodato al collo) com’è. Costassù.
Ciao con la solita foto sfuocata di una sera (lontana e perfetta: era il Palio d’agosto del 2001) di Contrada, di risate e gioia con te (e il Dase).
E, Salvatore, invece di chiacchierare sempre col Dase, butta un occhio quaggiù, alla tua Siena, o fallo fare “a Chi di dovere”.
Maura Martellucci
Roberto Cresti
Roberto Cresti