Nello strazio generale, per il terrore del contagio, i genitori abbandonavano i figli, e i figli i genitori, le mogli i mariti, l’un fratello abbandonava l’altro; “e non era alcuno che piangesse alcuno morto,inpero ché ognuno aspettava la morte”. La grande epidemia non fece differenza tra gli strati più bassi della popolazione, ammassati in rioni affollati, dalle condizioni igieniche precarie, e le alte sfere. Ben quattro dei nove membri del governo ci lasciarono le penne, segno che il contagio si era insinuato nel Palazzo comunale (ma il Mangia la scampò); e anche due dei quattro provveditori di Biccherna ed un esecutore di Gabella furono tra le vittime. Morirono poi il capitano della guardia di Palazzo, il Capitano di guerra e soprattutto messer Vinciguerra da Verona, conte di S. Bonifacio, podestà in carica. Gli furono resi grandi onori e venne inumato in sepolcro ancora oggi esistente nella controfacciata della basilica di S. Francesco, a spese del Comune. Anche il capomastro dell’Opera del Duomo, Giovanni d’Agostino sarebbe perito nella pestilenza; e quasi tutti i maestri che stavano lavorando all’accrescimento del Duomo. Nel contado perse la vita Bernardo Tolomei, tra numerosi confratelli del monastero olivetano da lui stesso fondato.
Le conta totale delle vittime è incerta, ma si può ben credere che almeno un terzo degli abitanti scomparvero e in settembre, al termine dell’epidemia, Siena “pareva quasi disabitata, ché quasi non si trovava persona per la città”. Gli attoniti sopravvissuti “erano come disperati e quasi fuore di sentimento”. Poi, superato lo sgomento, una folle gioia di vivere si impossessò dei superstiti: “ognuno che scanpò atendevano a godere; frati, preti, monache e secolari e donne tutti godevano, e non si curavano lo spendere e giocare, e a ognuno pareva essere richo, poiché era scanpato e riguadagnato al mondo, e nissuno si sapea assettare a far niente”.
Giovanni Mazzini