foto di Antonio Cinotti
Investire in cultura, ripartire dalla cultura, valorizzare questo o quel sito è ormai diventato un mantra con il quale giornalmente veniamo bombardati dai mass media.
Bene: ritengo che questo possa essere corretto ma occorre aver bene presente il perimetro e quello che intendiamo per cultura poiché, spesso, essa viene confusa con l’evento, il museo o la città d’arte.
Niente di più sbagliato.
Se vogliamo ri-partire occorre aver riguardo ad un’idea di cultura più ampio che abbia a cuore anche tutti quei settori e quelle branche che spesso non le vengono, se non parzialmente, correlate: primo fra tutti la costruzione di un connubio diretto fra impresa e cultura.
Parlando del rapporto fra cultura ed impresa, infatti, dobbiamo avere presenti e chiari due concetti, trasversali ma ugualmente importanti perché il futuro imporrà di metterli in stretto rapporto: molto spesso infatti siamo abituati a differenziare fra cultura di impresa e impresa culturale. Credo sia sbagliato.
Uscire dalla criticità ed attuare politiche di crescita prevede, nel nostro contesto, di investire ed estendere su due piani fondamentali, correlati fra di loro. Mi riferisco, appunto, alla cultura d’impresa e al concetto di ‘imprese per la cultura’.
RIPARTIRE DALLA CULTURA DI IMPRESA SARA’ LA PRIMA SFIDA.
Come fare e cosa fare saranno le priorità.
In questo momento la politica arranca, parla, discute, propone tavoli, individua pecche ma nessuno, dico nessuno ha mai proposto come e cosa fare per uscire dal tunnel.
Occorre investire sulla cultura all’interno dell’impresa perché, spesso, gli imprenditori sono stati loro stessi causa dei loro mali. Cultura di impresa vuol dire conduzione dell’attività secondo logiche e criteri economicamente, socialmente e finanziariamente corretti. Occorrerà aver riguardo a tutti gli asset strategici dell’azienda, investirci sopra, rinnovarli, farli progredire e, da adesso, dimenticare sirene e modelli che portano a depauperare il capitale dell’azienda a favore di interessi privati. Questo il come fare. Cosa fare, in questo periodo di crisi, è sfruttare e valorizzare quello che di buono abbiamo. E qui entra in campo la valorizzazione dei brand e del Made in Italy. Non si concepisce la disparità come fattore competitivo. Non ci appartiene più la massificazione dei prodotti e il fattore prezzo non può trovare spazio in un sistema economico e sociale come il nostro: fossimo disposti a combattere questa battaglia saremmo dei kamikaze.
E’ corretto che in un’ottica di lungimiranza e di sviluppo la politica debba avere come primario obiettivo riportare in Italia le eccellenze Italiane. Su questo tema il dibattito è aperto ed è chiaro a tutti che occorre valorizzare la funzione e l’importanza del Made in Italy.
IMPRESE PER LA CULTURA.
E’ il concetto che dovrà prevalere per la costruzione di un nuovo motore di sviluppo per il Paese. Programmare il futuro con i parametri del passato sarà la più grave delle sconfitte e degli errori.
Occorre essere coraggiosi e prendere l’opportunità. E allora lancio l’idea della necessità per il nostro paese di costituire distretti culturali trasversali, ribaltando il concetto ormai superato dell’offerta culturale legata per lo più al pubblico sostituendolo con uno che preveda la costituzione di un sistema integrato impresa-istituzioni-mercato della cultura.
Un sistema cioè dove gli imprenditori possano, insieme alle istituzioni, recuperare, valorizzare, e creare opportunità, ricchezza, posti di lavoro ed interesse intorno alle eccellenza culturali e ambientali dei nostri territori.
Non c’è Paese al mondo con caratteristiche più appropriate per approfittare di questo momento. Marchi, risorse culturali, eccellenze produttive: per l’Italia può iniziare una nuova grande stagione di crescita e di sviluppo. Dobbiamo però compiere uno sforzo di ridefinizione delle nostre priorità, dirottando tutte le risorse disponibili su cultura, impresa e lavoro, supportando le aziende nel processo di internazionalizzazione ma anche di ricerca e innovazione.
Sono molto d’accordo con chi ha detto che il problema della cultura in Italia è che la consumiamo e non la produciamo più.
“Da decenni la cultura in Italia è ossessionata dai grandi numeri”. La vera cultura la fanno i piccoli numeri che si ripetono, particolarmente nelle città. È il cittadino che frequenta concerti, va al cinema ed al teatro, che ritorna a vedere le opere d’arte nei musei della propria città, il protagonista e il motore della vita culturale urbana e nazionale.”
Non è quindi il concerto di Madonna o degli U2, per quanto importante possa essere, che creerà il tessuto culturale di un luogo e di una nazione.
È la vita dei teatri, la produzione di nuovi film, la creazione di nuovi spazi dedicati alla musica di tutti i tipi, generi e dimensioni, l’insegnamento delle discipline artistiche nelle scuole, elevate a materie fondamentali e non marginali, a far tornare la cultura il motore di una società e, conseguentemente, in parte anche della sua economia.
Perché non si pensi, poi, che questo sia un dispendio di risorse eccessivo e senza ritorno: dovremmo ricordarci che l’Italia, la Toscana poi per eccellenza, sono le terre madri dell’arte e della cultura che il resto del mondo ci ha copiato e che non serve un forte investimento in denaro: servono idee e capacità e qui, purtroppo, si cade. In termini di produzioni cinematografiche ci hanno superato, a noi compatrioti di Monicelli, Fellini e via dicendo, le pellicole di Bollywood ancor più di quelle di Hollywood. Eppure le nostre teste hanno molto da dare: basti pensare a un cinema d’essai prodotto da registi finora poco conosciuti o a produzioni italiane capaci di utilizzare il territorio – nei suoi aspetti anche negativi come nel caso di Cesare deve morire – per rilanciarlo, che ci regalano quasi un ritorno al verismo con fiction intelligenti, ben fatte e a costi non colossali come Romanzo Criminale, Il Mostro di Firenze, La Mala del Brenta, e quelle dedicate ai grandi personaggi che hanno fatto la storia del Paese, tanto per citarne alcuni.
Vogliamo parlare poi di comunicazione? Ci sono spot sui territori e sul turismo che fanno piangere e sono costate tanto, troppo. Su questo Expo ci offre, ahimé, già una lunga lista di esempi. Decisamente si può ottimizzare e far bene e questa crisi deve insegnarci questo. Purtroppo anche la promozione del territorio passa in modo eccessivo attraverso la politica.
Essendo stati benedetti dall’essere in una terra ricca geograficamente, artisticamente e storicamente, ci siamo lentamente ritrovati a essere non più produttori, ma consumatori, dimenticando che quello che consumiamo culturalmente un tempo lo producevamo.
Una società in crisi deve investire in produzioni, oltre che in eventi: formazione di professionisti della cultura, laddove per cultura non si restringa il campo soltanto all’arte propriamente detta ma anche alla cultura del lavoro e all’arte del saperlo fare. Bene gli eventi, se collegati in maniera tale da creare anche indotto per un territorio. E la possibilità ci sarebbe, eccome. Si deve investire nella formazione di professionisti della cultura, registi, musicisti, artisti, direttori di musei e cosi via.
Occorre sganciarsi dal sistema di gestione statale della cultura , dei musei e degli eventi, che ha prodotto fin troppi danni nella gestione del nostro patrimonio. Prima fra tutti la piaga di onesti funzionari che da semplici amministratori hanno assunto cariche di direzione artistica di importanti istituzioni culturali. Come se un bravo guidatore di pulmann, che ha fatto milioni di chilometri ed ha aspettato il suo turno pazientemente, dando il voto a chi di turno doveva, diventasse di colpo pilota in F1.
Tutto questo perché la cultura si è trasformata nel corso del tempo da strumento di formazione della nostra coscienza civile in strumento di propaganda politica e spartizione del potere.
I nostri musei sono gestiti con la burocrazia e le gerarchie di antichi ministeri. Abbiamo orari imbarazzanti e offerte improponibili: le reti fra musei sono spesso un’utopia e laddove esistono sono poco pubblicizzate da enti di promozione spesso inefficaci ed inutili.
Gli istituti di cultura italiana sono ancora macchine burocratiche imbarazzanti, conseguenza di logiche nepotistiche politiche, finanziate in maniera discussa e discutibile anziché essere propulsori della produzione culturale del nostro paese, del dialogo e lo scambio con le altre culture.
La televisione, che un tempo con tutti i suoi limiti aveva pur sempre una funzione didattica e di distribuzione culturale, è oggi il più delle volte trasformata in una vetrina del nostro sempre più volgare e rumoroso narcisismo di massa. E non ci lamentiamo se poi i nostri figli conoscono i partecipanti del Grande Fratello e non il Vasariano o il Duomo di Siena.
E’ compito nostro lasciar loro ciò che noi abbiamo trovato e, in pochissmi anni, buttato al vento.
Bene, è arrivato il momento di invertire la rotta. Ridando alla cultura il ruolo centrale che le spetta in una nazione che della cultura è stata e vuole tornare ad essere la culla. Per fare questo va combattuta l’eventocrazia ricucendo il tessuto culturale quotidiano, investendo massicciamente in produzione e formazione culturale, programmando ben oltre i limiti imprevedibili della vita politica di qualsiasi governo.
Cultura vuol dire futuro e il futuro è dentro la nostra cultura.
Le eccellenze del nostro Paese possono e devono costituire le basi per la futura ripresa.
A nostro vantaggio c’è una forte domanda di Italia in giro per il mondo ma dobbiamo partire dal presupposto che prima o poi il brand che si vende da solo, il Made in Italy e il Made in Tuscany, saranno spodestati dal territorio di altre parti di mondo e da altri eventi, se non siamo noi i primi a smettere di pensare alla italianamaniera e a riconvertirci nel paese del sole e della cordialità. Da noi deve partire la forza di ricominciare. Perché a volte, pur di non fare i conti con la realtà preferiamo convivere con la finzione, spacciando per autentiche le ricostruzioni ritoccate o distorte su cui basiamo la nostra visione del mondo E invece noi siamo maledetti toscani ma prima di tutto italiani: popolo di artisti, santi, poeti e navigatori. Senza tempo e limiti.
Luigi Borri