Ci sono gesti che contengono intera la natura di una persona. Gesti semplici, comuni, consueti, dei quali, lì per lì, non riusciamo a cogliere il valore simbolico. Occorre che trascorra del tempo, che l’incontro con quell’uomo o con quella donna si faccia ricordo, perché ci si renda finalmente conto che ciò che lui era, ciò che lei era, si trovava già tutto racchiuso in uno sguardo, nella maniera di piegare la testa, in un movimento della bocca. La verità è che noi conosciamo solamente attraverso la distanza e solamente la distanza ci fa comprendere il significato che una persona ha avuto per noi. Di Lorenzo, che per due anni fu mio alunno presso il Liceo Classico di Siena, c’è un’immagine che mi accompagna ancora, che non ha mai smesso di accompagnarmi. Erano i primi giorni di scuola, io stavo per entrare nella classe 3^B (allora vigeva la distinzione tra il biennio ginnasiale e il triennio conclusivo degli studi) e trovai ad aspettarmi davanti alla porta due alunni. Si presentarono, mi dettero il benvenuto al “Piccolomini”, mi dissero che nelle ore successive li avrei rivisti insieme ai compagni, perché loro – aggiunsero – non erano studenti dell’ultimo, bensì del penultimo anno (della 2^B). Quello più alto, che aveva i capelli raccolti in un codino, mi porse la mano, stringendo la mia con forza, e mi augurò buona lezione. Nel fare ciò sorrise, sorrise di un sorriso chiaro, largo, nel quale c’era un intero mondo, fatto di affetto, di rispetto, di generosità, di altruismo. Quel ragazzo era Lorenzo. E adesso che non c’è più, adesso che sono trascorsi venti anni dal nostro primo incontro, so per certo che nulla è mai esistito di lui e in lui che lo riepilogasse e lo rivelasse meglio e più di quel sorriso. Perché la luce che era dentro i suoi occhi e sul suo volto, era il segno tangibile, visibile e tangibile, della luce che portava dentro di sé, da qualche parte, laggiù nel profondo. Non perché fosse in pace con se stesso – quale adolescente lo è mai stato? –, non perché guardasse alla caducità dell’esistenza umana come a un qualcosa che lo riguardava esclusivamente per il tempo in cui durava la lettura di un epinicio o di un’elegia, e che immediatamente dopo era sostituita dalla percezione della bellezza incandescente dell’amicizia, dell’amore, della giovinezza. No, più semplicemente quella luce – fuori e dentro di lui – tradiva il suo modo di essere al mondo, a definire il quale non riesco a rinvenire nessuna parola più adatta di apertura. Lorenzo, infatti, si offriva e offriva, si donava e donava agli altri, perché questo ero il solo modo che lui conosceva di vivere. Dato naturale, certo, ma anche dato culturale, figlio dell’educazione che aveva ricevuto in famiglia e in contrada: ogni nuovo incontro per lui era sempre un miracolo. A Lorenzo nulla appariva meno concepibile della chiusura, dell’erigere muri, del confine, reso invalicabile a volte dalla forza, altre volte dalle idee. Del ritenere, insomma, che ciascuno potesse bastare a se stesso, che l’errore fosse sempre dell’altro o dell’altra parte, che la sofferenza di chi gli stava accanto né lo riguardasse né gli dovesse chiedere ragione. Al contrario, per lui vivere era un costante andare verso gli altri, un camminare, in senso reale, in senso metaforico, a braccia aperte, tenendo le braccia aperte, quasi che l’egoismo, la cattiveria, l’invidia, il rancore, raccontassero solamente una parte, la meno rilevante e la meno estesa, della verità della condizione umana. Sicuramente, la più inutile. Sicuramente quella che, prima o poi, avrebbe mostrato tutta la propria vulnerabile debolezza. Ecco, il sorriso di Lorenzo, io credo, esprimeva non soltanto ciò che c’era in lui (affetto, rispetto, generosità, altruismo), ma anche ciò che non c’era in lui (egoismo, cattiveria, invidia, rancore), che non c’era mai stato.
Francesco Ricci