Il Palio, per come è nato e per come nei secoli si è riscritto (pur adeguandosi alla storia contingente, e tra poco vedremo come si “adeguerà” ai mutamenti, importanti, personali, economici e sociali che il Covid ha innegabilmente portato), ripresenta una metafora della guerra e dello scontro di parte.
Vivere (e capire) il Palio, così, è fare i conti e riscoprire quello che, come italiani, siamo stati e ciò che (nel bene e nel male) abbiamo perduto. E non è un caso che, il giorno del Palio, in cima alla Torre del Mangia sventolino insieme la Balzana di Siena e il Tricolore d’Italia, per ribadire anche visivamente, che questa non è la festa solo di una città, ma fa parte della cultura nazionale. Né è solo coreografia quel drappello di carabinieri a cavallo, voluto, dal luglio del 1919, per ricordare la battaglia di Pastrengo combattuta il 30 aprile 1848 (quando si effettuò una carica composta da tre squadroni di carabinieri a cavallo che, rompendo l’accerchiamento, travolsero le truppe austriache comandate dal maresciallo Radetzky).
Il Drappello dei carabinieri a cavallo, non a caso, ha preso il posto dei “Cacciatori granducali” cioè di quei soldati che prima dell’unità d’Italia (1861) effettuavano lo sgombro della pista.
Poi, quando la carica dei militi esce dalla bocca di San Martino, sembra riaffidare Siena alla sua storia, alla sua tradizione, alla sua memoria. Il Palio è un’unione tra passato e futuro che diventa attuale nell’oggi (qualunque cosa sia avvenuta). E’ uno squarcio nel tempo e in quel un minuto e poco più si concentrano secoli di storia. Quella cittadina e quella nazionale.
Maura Martellucci
Per approfondire: Duccio Balestracci, “Il Palio di Siena. Una festa italiana”, Laterza 2019.