Nonostante le continue visite per fare le medicazioni sarebbe stato per più di un mese con un femore rotto, a seguito di una caduta avvenuta all’ospedale Le Scotte e senza che il personale che lo aveva in cura si fosse accorto di nulla.
La scoperta successiva della frattura però avrebbe poi portato ad un’ulteriore odissea. La vicenda vede come protagonista Dario Pelosi e a denunciare sul nostro giornale l’accaduto è sua figlia Denise.
“Chiedo giustizia per mio babbo- esordisce così-, ma anche per tutti gli altri che sono più deboli e che hanno bisogno di ricorrere alle cure dell’ospedale. Sto cercando di avere un risarcimento perché gli ultimi giorni, mesi, anni che vivrà mio padre possano essere il più dignitosi possibile”.
Tutto ha inizio lo scorso 14 febbraio, come racconta la donna: suo padre viene sottoposto ad un intervento di angioplastica nel reparto di Chirurgia vascolare, visto che soffre di diabete e che gli si erano ostruite le arterie. “La mattina successiva lo hanno fatto camminare come da prassi – spiega Denise -. Lui però è andato in ipoglicemia ed è caduto, rompendosi così l’osso. Nonostante questo però lo hanno rimesso semplicemente a letto, senza fargli alcuna lastra. Mio babbo poi il giorno dopo ha fatto un nuovo intervento”.
La mattina del 18 febbraio Dario viene mandato a casa ma è molto dolorante. “Abbiamo contattato il medico curante che pensava che tutto questo fosse dovuto all’intervento di qualche giorno prima. Dunque siamo andati avanti così per un mese, facendo le medicazioni all’ospedale senza che nessuno si accorgesse del femore”, prosegue la figlia.
È solamente la mattina del 23 marzo, come puntualizza Denise, che un’infermiera si accorge della frattura. “Il piede di mio padre era ruotato in una tipica posizione che ne indicava la lesione- osserva la donna – . Io quindi ho chiamato il reparto per chiedere delucidazioni, ma il medico mi ha saputo solo dire che non aveva ritenuto opportuno di fare la lastra perché non si erano resi conto di quanto era successo al femore”.
Dario intanto viene fatto visitare in Radiologia. “Il medico di quel reparto mi ha dato la lastra dicendomi di andare in Ortopedia – aggiunge Denise -. Sono stata lasciata sola con mio padre in carrozzina e la Pubblica Assistenza. Alla fine con i volontari abbiamo deciso di tornare a casa, chiamare il 118 e fare arrivare una barella per ricoverare mio babbo”.
Così, dice ancora la figlia, è iniziato il ricovero in Ortopedia. “Il 27 lo hanno operato per una protesi al femore”, continua. I problemi però non erano finiti: “Il 29 marzo mio babbo respirava faticosamente e tossiva forte. Io ho chiesto se avesse la broncopolmonite ma mi è stato detto che non aveva nulla e che erano stati fatti gli esami – le parole di Denise – . Inoltre dalla Chirurgia vascolare, dal 23 marzo, nessuno stava venendo più a fare le medicazioni, ho dovuto minacciare di chiamare i carabinieri…”
L’incubo però, stando a quanto dice la figlia, sarebbe andato avanti: “In quel giorno mi hanno mandato via dal nosocomio alle 20. Alle 22 sono stata richiamata e mi è stato detto che mio babbo stava per entrare in coma farmacologico per fare una tac di contrasto in modo di vedere se aveva un’embolia. Alle 1.30 è andato in rianimazione per una polmonite. Non solo: è stato intubato tre volte, ha fatto la tracheotomia e ha preso pure il covid” .
Alla fine l’uomo è stato portato a Volterra per fare la riabilitazione polmonare. “È stato lì per mesi – dice la figlia – Adesso respira senza l’ausilio di un respiratore ma ha fatto la Peg (la gastronomia endoscopica percutanea, ndr.) e non penso che camminerà più, In questi giorni si trova alla clinica Rugani”.
La donna intanto si è rivolta al Tribunale del malato. “Sul caso sono state mandate mail con richieste di delucidazioni sia all’Urp che alla direzione sanitaria. Lo stesso Tribunale ha inviato mail alla direzione sanitaria ma senza ricevere risposte. Inoltre avevamo chiesto di poter visionare delle cartelle cliniche ma ad oggi ne manca una”, conclude. “Se ci fosse un avvocato e un medico legale disposto ad aiutarmi, con un compenso ridotto gliene sarei grata”, l’appello finale.
Marco Crimi