L’attentato ai cinque militari in Iraq arriva a due giorni dal sedicesimo anniversario di quella che è stata la più grave strage che ha visto coinvolti i nostri soldati dalla seconda guerra mondiale: l’attentato di Nassiriya, cittadina nel sud dell’Iraq dove l’Italia aveva la base del contingente inviato dopo la guerra a Saddam Hussain. Era il 12 novembre 2003. Quella mattina, in un attacco alla base Maestrale a Nassiriya, morirono 19 italiani (12 carabinieri, 5 soldati e due civili).
Ancora feriti ancora sangue, ancora un attentato in Iraq alle nostre forze armate impegnati in un’attività di mentoring and training, che poi di “addestramento” ha ben poco, sono vere e proprie operazioni al fianco delle forze Irachene, alla ricerca di armi e nascondigli in un terreno pieno d’insidie dove il pericolo può essere in ogni dove.
L’attentato in Iraq ci riporta alla mente tutti quei ragazzi che in questi anni sono rimasti vittime della loro “voglia di vivere”, può sembrare un paradosso, ma è questa la motivazione principale che spinge i nostri militari ad affrontare i rischi connessi con le varie missioni, sì certo esiste anche la parte economica, ma ci sembra giusto ricompensare chi per sei mesi resta lontano dalla famiglia in situazioni di costante pericolo.
La curiosità, il senso del dovere, la possibilità di scendere finalmente in campo e quella strana sensazione di essere utile a qualcosa sono la molla che ti fa dire “ok, si parte” , tutti mettono in conto la possibilità di non ritornare ma nessuno ci crede veramente.
Anche in questo caso non vorremmo che passato il primo momento di cordoglio tutto finisse nel dimenticatoio di una politica che troppo spesso si specchia in se stessa, il sacrificio di questi ragazzi dovrebbe essere da monito il giorno in cui si discute sui finanziamenti per acquistare nuovi equipaggiamenti che tradotto in termini pratici significa più sicurezza sul campo.
Forse ieri mattina nel nord dell’Iraq ( la località precisa non è stata resa nota ) non sarebbero serviti a niente, perché questo attentato è stato fatto con un Ied – Improvised Explosive Device,un ordigno artigianale, difficile da individuare anche con le migliori tecnologie, ma avere materiale efficiente aumenta l’operatività e di conseguenza le possibilità di uscire indenni da situazioni potenzialmente pericolose.
Uno dei militari feriti, Paolo Piseddu vive a Siena con la moglie e i suoi due figli, sembra essere stato operato all’addome e pare essere fuori pericolo, ci piacerebbe che anche lui come tutti i militari che hanno sacrificato la loro vita o la loro salute non venisse dimenticato, non esiste peggiore umiliazione dell’indifferenza, avere la speranza di essere stato utile può diventare la motivazione principale per accettare i sacrifici e le sofferenze di una vita da oggi in poi sarà diversa.
Le forze armate hanno istituito un ruolo d’onore dove molti soldati continuano a sentirsi tali, ma questo è il minimo che uno Stato deve fare per chi come Paolo ha accettato di sacrificarsi per Lui.
Giovanni Graziotti