Mesi vissuti in paesi poverissimi come quello di Aber, in Uganda, appartenenti al cosiddetto ultimo miglio: zone dove la sanità ha immense difficoltà ad arrivare, dove mancano beni di prima necessità, dove il caldo torrido toglie il respiro; è facile intuire quanto è grande la sfida che il personale coinvolto in queste missioni si trova ad affrontare ogni giorno. L’impegno è enorme, il contesto ambientale mette a durissima prova ma spesso regala delle emozioni forti impossibili da dimenticare. E di emozioni forti ne ha vissute Paolo Rossi, senese che da oltre 15 anni lavora tra l’Uganda e il Kenya insieme ai Medici con l’Africa Cuamm.
“Fare cooperazione internazionale non è semplice, noi prima conosciamo il territorio dove andiamo ad operare. In Kenya abbiamo aperto un centro dialisi ed io, essendo il direttore dell’unità operativa dialisi nella nostra azienda sanitaria, ho coordinato l’iniziativa. In Uganda le prime volte ci sono stato per fare dei report su dei progetti in corso, per esempio uno era con un‘università locale per formare manager della sanità. Ad Aber non c’è nulla – ci racconta -, è un agglomerato di capanne e qualche edificio in muratura ma oggi può contare su un ospedale dove è stato potenziato soprattutto il reparto materno – infantile, che è la nostra principale attività. Rimangono molte carenze, ti farei vedere come è la guest house: ogni volta dobbiamo portare le zanzariere dall’Italia, le loro sono sempre bucate”.
Quelle che Paolo Rossi ci descrive sono situazioni che appaiono quasi rocambolesche. Tantissimi sono gli ostacoli e le difficoltà da affrontare e le condizioni estreme con cui è stato costretto a vivere lo portano a parlare di aneddoti incredibili. “Fa molto ridere pensare a quale era il mezzo di trasporto delle mamme che dovevano partorire, per non farle venire a piedi o in bicicletta da posti molto lontani – spiega-. Per trasportarle dovevamo utilizzare una sorta di triciclo che ricorda un’Ape o delle moto con un sellino che partiva dal serbatoio e arrivava fino a dove c’era il portapacchi. Collaboravamo con dei riders specializzati, nel momento in cui c’erano le prime doglie, la mamma della partoriente avvertiva il rider. Nella moto che arrivava in ospedale c’erano il guidatore, la futura madre e dietro c’era la futura nonna. L’unico casco disponibile veniva dato alla partoriente”.
Sarebbe stato proprio uno di questi riders protagonista di una delle vicende professionalmente e personalmente più belle vissute da Rossi. “ Una signora arrivò la notte, non avevamo ancora il generatore elettrico e ci dovemmo arrangiare con le torce – afferma-. Due miei amici la fecero partorire. Andò tutto bene, nacquero due gemelli. Portavo in braccio questi due bambini piccini che cominciarono subito a piangere. Quando li vidi mi sentii ripagato di tutti i sacrifici fatti”. Per Paolo sono i sorrisi ed il divertimento dei più piccoli a compensare tutti i suoi sforzi e la sua fatica, tanti sono stati per lui i momenti di gioia e spensieratezza vissuti in Africa, come quella volta che portò un pallone dei mondiali di Italia’90 e fece giocare una scuola con centinaia di alunni a calcio.
Poi c’è Todi, che per lui è diventato quasi come un secondo figlio. “Trovai questo bimbetto, con la sua divisina scolastica, che girava per l’ospedale. Mi venne dietro, mi dette la mano ed iniziò a portarmi in giro. Vedendoci tutti ridevano e dicevano: ‘Ehi, hai trovato il papà’-conclude-. Gli feci assaggiare i ricciarelli, li mangiò con piacere. Stette un’intera giornata con me, mi lasciò solo perché alle 16 avevo un briefing e lo riportai dalla sua mamma. Finito il briefing andai a bere una birra in un pub, lui mi vide e mi corse dietro. Nacque un bellissimo rapporto. Ogni giorno quando io lasciavo l’ospedale per andare in altri edifici, lui non sentiva storie: mi salutava la mattina e poi mi aspettava negli scalini della guest house per poi tornare a stare insieme a me”
Marco Crimi
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