“Scegliete il meglio, cambiate il mondo, fate valere i vostri diritti”. Il Generale Angiolo Pellegrini è accolto da interesse e applausi dagli studenti delle quarte e quinte dell’Istituto Monna Agnese, dove ha presentato il suo romanzo Noi, gli uomini di Falcone. Il dibattito è stato preceduto dal racconto dei principali episodi della guerra di mafia culminata con il maxiprocesso iniziato nel 1986. Gli studenti si sono sentiti molto coinvolti dalla narrazione concitata e passionale di un uomo che ha votato la vita a combattere la mafia, in uno scambio continuo e silenzioso tra pubblico e oratore, in cui tanti sono stati i messaggi lanciati e raccolti dagli studenti. In particolare, il succo del discorso si può trovare in un’altra frase ribadita più volte: “Ho potuto fare la guerra alla mafia perché ero un uomo libero”. E in questo uomo libero i ragazzi del Monna Agnese hanno cercato di scovare i tratti maggiormente umani, a cominciare dalla paura: la domanda più ricorrente durante la discussione è stata, infatti, “Come si agisce attraverso la paura?” o, ancora, “Non ci sono stati momenti in cui ha avuto paura?”.
Angiolo Pellegrini è stato comandante della sezione antimafia di Palermo dal 1981 al 1985, quando ha portato avanti una delle più importanti indagini su Cosa Nostra in un pool investigativo in stretta collaborazione con Giovanni Falcone. Tutto questo ci viene raccontato da un uomo che porta in giro la sua arguzia come un profumo e la sua esperienza di lotta come una bandiera, un uomo che, con la passione nello sguardo, racconta la sua esperienza nella Dia con la calma riservata a chi sa di non essere stato indifferente.
Partiamo dall’attualità: è di qualche giorno fa la vicenda delle scritte eloquenti apparse sui muri dell’Arcivescovado di Locri contro Don Ciotti, ucciso dalla mafia. Stava per svolgersi la manifestazione di Libera con la presenza del presidente Sergio Mattarella, anch’egli colpito dalla mafia con l’uccisione del fratello. Cosa ne pensa?
“Intanto, la provenienza non è quella che si pensa perché la ‘ndrangheta una scritta “Don Ciotti sbirro” non l’avrebbe mai fatta perché ha tutto l’interesse a non mettersi in mostra. È stato qualche ragazzaccio del posto, qualcuno che aspira magari a farsi conoscere, qualcuno che aspira a entrare nell’organizzazione criminale. Che, però, ci sia la ‘ndrangheta dietro io mi rifiuto di crederlo”.
Quindi è per questo che è molto importante parlare con i giovani…
“È importantissimo perché i giovani sono quelli che devono lottare queste situazioni. Come si fonda la forza della mafia e delle altre organizzazioni mafiose? Si fonda attraverso i collegamenti che hanno con le istituzioni. Come dico nel libro, noi abbiamo perso la guerra perché i mafiosi, nel momento in cui capirono che stavamo vincendo la più grossa battaglia nei loro confronti, in primis con l’apertura del maxiprocesso, si rivolsero a qualcuno delle istituzioni per chiedere di intervenire. Hanno chiesto un favore perché potevano, perché avevano un legame con le istituzioni. E allora l’insegnamento per i giovani è sempre quello: se voi andate a bussare alle porte di persone poco raccomandabili, dovete sempre aspettarvi che quelle persone vengano a bussare alla vostra porta. L’esperienza del passato deve servire per un presente e un futuro dove non si compiano gli stessi errori che sono stati compiuti in passato. Se si vuole cambiare l’Italia, bisogna che cambi la storia, che cambino i modi di procedere, che nel momento in cui si va al voto si scelgano le persone perbene, non quelle che magari ci promettono “se tu mi dai il voto io poi ti sistemo”. Bisogna evitare di andarsi a rivolgere alle lobby, qualcosa di estremamente pericoloso. Bisogna far capire ai giovani che devono andare avanti con le loro forze, perché trovare la raccomandazione vuol dire fare un danno e un torto a un compagno che magari merita di più. I giovani sono ancora puliti e quando si guardano allo specchio un esame di coscienza ancora se lo fanno, perché ancora non hanno costruito la maschera. È bene che i giovani sappiano, che conoscano le storie e i nomi, da Mattarella a La Torre a Dalla Chiesa e via dicendo. I giovani devono sapere che Mattarella è morto perché voleva opporsi al potere del sindaco di Palermo Vito Ciancimino, colluso con la mafia. I giovani vanno stimolati a cambiare qualcosa. E smettiamola di parlare di legalità, ché non ha senso… è normale che si debbano rispettare le regole. Dobbiamo fare di più. Dobbiamo combattere il sistema e solo quelli che non ci sono dentro, possono farlo. I giovani ma anche gli insegnanti che hanno una grossa responsabilità, ancora più di quella dei genitori: i docenti devono insegnare ai ragazzi di non inserirsi in quel sistema”.
Lei appartiene alla prima generazione di uomini che ha combattuto la mafia in maniera differente…
“Io le direi un’altra cosa: io sono stato, insieme ad altre persone – Falcone, Borsellino, Cassarà – a combattere la mafia in un modo differente da quello che era stato usato fino a quel momento: non combattere più il singolo mafioso, ma combattere la struttura mafiosa. Lottando contro una mafia strapotente grazie alla politica. E grazie all’omertà”.
Com’era lavorare in questo ambiente in cui tanti suoi colleghi sono morti? Non aveva paura?
“La paura è un sentimento normale ma si deve avere comunque il coraggio di vincerla. Ed è difficile, spesso. Diciamo che so andare avanti, come sono andati avanti tanti miei colleghi. Perché la mafia non manda i messaggi, non ti dice che t’ammazza o ti manda la lettera anonima. Quando arrivano queste cose io ci credo molto poco: la mafia ti spara, se ti vuole eliminare. La mafia è quella che non manda avviso perché questo significherebbe far prendere all’altra persona le precauzioni che rendono più difficile il delitto. La mafia decide, prende tre killer com’è successo con Basile che mentre tornava dalla festa con la figlioletta di tre anni in braccio. In tre, lo hanno colpito alle spalle i vigliacchi. Killer che poi, arrestati, sono stati poco dopo assolti da certa magistratura. La mafia non è altro che uno stato nello Stato: esiste lo stato mafioso, esiste lo Stato legale; il problema è che hanno lo stesso territorio e la stessa popolazione. Allora, come diceva Falcone, o si convive o ci si scontra. In quel momento, dopo tanti anni di convivenza, ci siamo scontrati. E loro hanno reagito in una certa maniera perché non potevano permettere che si arrivasse a scoprire l’esistenza di una struttura mafiosa. Peraltro sempre negata da tutti, in Sicilia. Allora i giovani devono sapere che se noi diamo appoggio ai mafiosi, i mafiosi cercheranno di occupare il territorio, portare a sé la popolazione, imporre le loro leggi perché la mafia aveva le sue leggi: era uno Stato, aveva la sua sovranità. Tanto che a un certo punto quel pazzo di Totò Riina pensò di poter sfidare lo Stato con gli attentati ai beni culturali”.
Ritiene che ora la situazione sia diversa? Se sì, in che modo?
“Non è più una struttura come quella descritta finora. Esiste ancora una mafia più astuta che ha fatto il salto di qualità e tuttora comunque è legata alle istituzioni riprendendo il vecchio detto siciliano ‘calati giunco che passa la piena’.
Ossia?
“Il giunco è una pianta flessibile e quando passa la piena si abbassa e quando è finita la piena torna di nuovo dritto. Ora che c’è stata la piena la mafia si è nascosta, si è sommersa, però i collegamenti ci sono ancora. Matteo Messina Denaro, il killer preferito di Riina, è ancora latitante: la mafia non è finita, certo non è così spavalda com’era prima. A Palermo non c’è più il coprifuoco la sera. Oggi ci sono altri canali, i collegamenti con gli Stati Uniti, gli accordi con la ‘ndrangheta che ha più possibilità di espandersi fuori dal territorio perché ha tante cellule anche dormienti, che magari non hanno mai avuto contatti ma che nel momento in cui vengono chiamate rispondono. Questa è la potenza, perché se noi andiamo da tutte le parti ci sono elementi che fanno parte delle famiglie mafiose.
I ragazzi devono conoscere e combattere tutto questo. E non ci devono essere persone penalizzate per aver fatto la lotta alla mafia perché, come dico nell’ultimo rigo del mio libro, “chi tocca i Salvo muore. E non solo fisicamente”. L’episodio è riferito a me: i Salvo sono il cardine tra mafia, politica ed economia; i più grossi imprenditori della Sicilia. Dopo averli arrestati, venne coniata l’espressione “chi tocca i Salvo muore” . Perché si può morire in tanti modi, basta anche essere mandato via dal lavoro che ha sempre fatto”.
Infatti il suo pool investigativo era stato smembrato a un certo punto…
“Sì, capitò a me come a tanti altri colleghi. Dopo che furono uccisi Montana e Cassarà, la polizia si sfasciò perché non ci furono i ricambi giusti. Giovanni Falcone non venne eletto capo dell’ufficio istruzione, gli si tolsero i collaboratori più stretti perché, ammazzati o trasferiti, non vennero sostituiti. Comunque non da gente competente capace di portare avanti le indagini in maniera seria e con la dovuta sensibilità. Si è fatto in modo che non ci fosse l’approfondimento necessario. Invece noi avevamo sempre lavorato in modo diverso, diretto. I mafiosi bisogna guardarli in faccia per capire”.
Come nel caso del suo libro, dove si sente il coinvolgimento, determinato dal fatto che lei ha vissuto quello che ha scritto…
“Il mio è un romanzo, non è la storia della mafia. È inserito nel momento di più grande crisi delle istituzioni nei confronti di una guerra di mafia che veniva combattuta con metodi assolutamente non efficienti. È un romanzo in cui racconto anche le impressioni, le paure, i colloqui con Falcone, i commenti. Ci sono tante piccole cose per cui consiglio sempre di leggerlo due volte perché la prima si legge come un romanzo e la seconda volta si guarda in mezzo perché ci sono tante piccole toccatine che chi deve capire capisce.
Come è nato questo libro?
“Il libro è nato dal fatto che io ero rimasto disoccupato e, quando uno rimane disoccupato, inizia a dire ‘mo’ che faccio?’. Il cervello si deve sempre tenerlo impegnato e io l’ho fatto rimettendo insieme l’enorme mole di documentazione di anni di lavoro. Poi mi chiamò un giovane giornalista che avevo conosciuto in Calabria e mi chiese di scrivere un libro sulle questioni calabresi. Non lo feci”.
Perché?
“Preferivo scrivere quello sulla mafia. E perché sulla Calabria si possono raccontare tante storie. Mi piaceva di più scrivere quello perché, intanto, si sono dette un sacco di fesserie e volevo invece dre al pubblico il vero ritratto del mafioso. Non quello delle fiction, dove il mafioso viene sempre presentato come la persona che cerca di fare le cose perbene, la persona d’onore. I mafiosi non sono così, sono topi di fogna, sono vigliacchi. Quali uomini d’onore! Uomini di disonore, semmai: ammazzano i bambini, hanno ucciso Giuseppe Di Matteo per obbligare il padre a interrompere la collaborazione, l’hanno tenuto sequestrato per mesi e poi l’hanno strangolato e buttato in una vasca di acido e voi mi dite che sono uomini d’onore? I mafiosi sono topi di fogna e basta. E questo bisogna saperlo. Allora ho detto a questo giornalista che io avrei scritto il libro e lui me l’avrebbe controllato per evitare qualche querela. Poi ho dovuto trovare alcune documentazioni che non avevo, ad esempio i verbali del primo processo Chinnici e altro. Il passaggio successivo è stato presentare il manoscritto all’editore Sperling. Spero di aver trasmesso bene la verità”.
Valeria Faccarello