Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
Le note del pianoforte interrompono la fretta dei miei passi e mi invitano a entrare. Percorro il corridoio, nel buio incontro la statua di Giulio III e l’incisione a memoria del conte Guido Chigi-Saracini. La vista mi si spalanca all’aprirsi del cortile, alla meraviglia del gioiello incastonato nel cuore del palazzo. Seduto sulla panchina di marmo, palpebre chiuse, volto alzato alle note che giungono dalle finestre socchiuse e mano destra poggiata sul pomello del bastone, c’è un vecchio signore. Lo saluto con un cenno della testa, mi dice di avvicinarmi. Alzo prima gli occhi alle volte affrescate. Mi avvicino al pozzo fiorito e guardo giù, oltre la grata. Il vecchio mi fa segno di sedere accanto a lui.
“Non ti ho mai visto, qua” mi dice.
“Non vengo spesso. Sono stato chiamato dalla musica. Lei, invece?” gli rispondo, titubante se continuare la conversazione.
“Vengo qui quasi ogni giorno”. Lo dice con il tono delle persone anziane che vogliono che tu continui a domandare loro, che a posta restano timide di parole per sentire il desiderio della domanda dell’altro.
“Ah sì, e come mai?” lo incalzo.
“Lo senti il mio accento? Non sono di Siena. Vengo dalla capitale, io. Facevo il pianista. Ero giovane, avevo davanti a me una carriera promettente. Parliamo di tanto tempo fa, ormai”.
“E poi? Cosa lo ha portato a Siena?”
“Il mio spirito rissoso. La musica riusciva a placarlo, ma mai interamente. Sferrai un cazzotto a un mio amico, si comportò male con la fidanzata. Mi piaceva, lei”.
“Un cazzotto? É stato un cazzotto a portarlo qui?” mi sta incuriosendo.
“Fu il gesto che trasformò la mia vita. Passai dieci giorni in ospedale, cercarono di ricostruirmi la mano. Tre fratture, due chiodi dentro le ossa. Ci riuscirono, un po’ alla meglio. I dottori mi promisero che sarebbe tornata come prima”.
“E invece?” Estrae la mano dalla tasca. Le nocche sono grandi, esagerate, sovrapposte l’una con l’altra. É una mano deforme. “Non è più riuscito a suonare, vero?”
“Con la mano sinistra, ci ho provato. Ho provato a tenere concerti con una mano sola, fingendo di muovere anche l’altra”.
“Ha avuto successo?”
“No. Non potevo più vedermi vivere a Roma: la città in cui ogni palazzo e monumento aveva promesso di realizzare i miei sogni, mi urlava ogni giorno contro la mia disfatta”.
“Capisco..” Cerco parole che possano lenire le sue sciagure, ma ciò che arriva alla mente in questi momenti è il silenzio.
“Scelsi Siena perché sapevo dell’esistenza di questo posto. Vivo in un appartamento poco lontano. Anche quando non abiti più la tua passione, una certa vicinanza rende comunque la vita più vivibile. Vengo qui ogni giorno. Ascolto il suono di ciò che avrebbe potuto essere. Torno, almeno con l’immaginazione, nel luogo del ricordo in cui ero al vertice”.
Con la mano deforme, indica il pozzo davanti a noi. A voce alta leggo la scritta incisa sul marmo: “Micat in vertice”.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci