Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
Ci sono giorni in cui le nostre gambe hanno dimenticato la ragione che le pone una davanti all’altra. In cui le parole fuoriescono dalle labbra chiedendosi quale sia il loro filo conduttore. L’impulso di andare avanti non è scontato: a volte va contemplato il suo opposto, per far sì che esso torni. Diceva più o meno così, Cioran: la vita dev’essere una scelta, contrapposta alla possibilità sempre aperta di porne fine. Fonte del Casato è storicamente legata a tutto questo: il suo incavo ti guarda e ti invita a piombarti a capofitto nelle storie della fonte che il fondo ancora conserva.
Era un giorno di inizio luglio del 1348, quando Anna scorse un bubbone sulla guancia del fratello. Pensò che fosse dato dal caldo, dai graffi che di solito si faceva a giocare con gli altri bambini ma visto che era debole alle influenze, lo rimise a letto e quel giorno andò a lei a lavoro per entrambi. Afferrò sottobraccio la cesta che teneva fuori dall’uscio e scese per il vicolo del Sambuco e iniziò a bussare alle porte. Faceva la lavandaia, Anna: raccoglieva i panni sporchi dalle famiglie che potevano permettersi di non andare ogni settimana alla fonte, e glieli riportava dopo qualche giorno puliti e asciugati. I Bonaventura erano una delle famiglie più benestanti, non dimenticavano mai di pagarla. Alla loro porta, quella mattina, nessuno rispose. Si udivano grida e lamenti da fuori. Anna si affacciò a una finestra e vide la signora stringere fra le braccia il corpo senza vita del figlio.
“E’ peste, signora. Allontanate il viso dal corpo di vostro figlio, per l’amor del cielo” urlò il medico, la bocca coperta con uno straccio per rimanere vivo da quel male che la città gli chiedeva di combattere. Il cesto ricolmo di panni che teneva fra le braccia si rovesciò a terra e Anna corse a casa dal fratello. Gli dette a lungo da bere, lo coprì e lo fece rimanere a letto. Nel pomeriggio udirono un carro trascinato dai buoi passare sulla pietra serena e chiedere di consegnare a loro i malati. In un giorno qualunque la quotidianità s’interrompe e ogni ordine che credevi regolasse la terra viene d’un tratto sovvertito: a Siena c’era la peste.
Anna si rifiutò di salutare il fratello per gettarlo sul carro. Lo tenne in casa con sé, come avevano sempre vissuto: facendosi compagnia e giocando a essere grandi uno agli occhi dell’altra. Tre sere dopo, rientrando da lavoro, trovò il corpo del fratello che aveva spirato. Non aveva voluto attendere il calore di una mano sulla fronte a dirgli addio, le aveva evitato la disperazione di voler dir tutto e non riuscire a proferire parola.
La mattina dopo Anna fece il giro delle porte e si recò alla fonte, come aveva sempre fatto. Cosparse la cenere sui vestiti e aspettò che facesse il suo effetto. Non c’era nessuno, nei dintorni, i senesi erano chiusi in casa per proteggersi dal contagio. Anna era l’unica presenza nel Casato e pensò di fare anche lei come dall’inizio della peste in Via del Casato era usanza fare: risalire le scale, andare accanto al muro che costeggia la fonte, guardare giù e lasciarsi andare. Cadere da questo mondo che da qualche mese sembrava non ospitare altro che miseria. Tutti la chiamavano Fonte Serena, in città: il suo strapiombo era un rifugio perfetto per coloro a cui su questa terra la serenità era stata strappata, e andavano a cercarla altrove.
Anna guardò giù: si figurò il salto che avrebbe fatto. Vide il suo corpo scendere nel vuoto, sbattere contro il muro di mattoni e accasciarsi sugli scalini. Lo immaginò raccolto dai becchini e gettato su un campo assieme ad altri corpi malati.
Aveva ventun anni: ridiscese le scale, tornò vicino all’acqua della fonte che scorreva a fiotti. La cenere aveva pulito la biancheria. Si spogliò e si gettò nell’acqua trasparente, incontaminata dal male di vivere degli uomini, lavandosi anche lei dal proposito che non esistesse più ragione per vivere.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci
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