A fine serata rimangono solo gli amici più stretti. Chi era di passaggio, chi si è aggiunto al gruppo per una sera, chi continua a uscire con noi perché non ha nessun altro che il venerdì sera gli offra una ragione per alzarsi dal divano, alle 2/2.30 massimo, ringrazia e saluta. Rimaniamo noi quattro, gli stessi, i vecchi amici, a pensare come impiegare le restanti tre ore che ci separano dall’alba.
Era stata una serata senza grandi colpi di scena. Una di quelle serate anonime, che tengono assieme come un collante il resto delle serate in cui qualcosa accade. Ordinammo altre quattro birre in vetro prima di alzarci dal tavolo. Da San Domenico scendemmo le scalette che portano fino a Fontebranda. Ci sedemmo a metà, nel punto in cui da sinistra l’occhio è colpito dall’imponenza verticale di San Domenico e sporgendosi a destra incontra il tetto merlato della Fonte. In un luogo ripido e scosceso in cui poter parlare di tutto. Ogni volta come fosse la prima, ci trovammo a rivangare questo nostro
rito.
Nell’atrio di scuola, davanti ai tabelloni che attestavano la nostra maturità, ci abbracciavamo e saltavamo uno sopra all’altro, un po’ come facevano tutti. In queste situazioni non sai mai cosa fare, e ti guardi attorno per vedere come il mondo si comporta. Provi ad imitarlo, un po’ impacciato. La verità è che la nostra gioia non era piena, completa. C’era qualcosa che si frapponeva fra i nostri corpi adolescenti che si cercavano l’un l’altro per festeggiare: la paura di perdersi. Tentammo di sciogliere quest’angoscia in una promessa: almeno una volta al mese, la notte fra il venerdì e il sabato, sarebbe stata il nostro luogo di ritrovo.
Il momento dopo una serata, quando i convenevoli sono finiti ma non hai ancora voglia di tornare a casa. Quello sarebbe stato il nostro spazio di sincerità, dove tornare seduti sui banchi del Liceo uno accanto all’altro, o immaginarci grandi con una famiglia e i figli che giocano assieme nel parco. Erano quasi
le cinque, e i lampioni si spensero in favore della luce del nuovo giorno. Ci salutammo con delle pacche sulle spalle, gli occhi rossi commossi e lacrimanti di stanchezza.
Loro risalirono le scale per andare a prendere la macchina in San Domenico, io convinsi le mie gambe a trascinarsi fino alla Fonte. Quando la città è deserta è più facile immaginare le stesse mura popolate come eran prima. Complici le birre che avevo bevuto, sentivo il rumore dei panni intrisi d’acqua e
sapone fatto a mano sbattere e consumare la superficie del lavatoio. Fontebranda è la fonte più antica e una delle più grandi di Siena: abitare nei dintorni per le donne del medioevo doveva essere un gran privilegio, risparmiava loro di percorrere troppi sali e scendi nell’andare a prelevare l’acqua potabile e fare il bucato.
Immaginai Caterina, la cui casa si trovava a pochi metri: un esile corpo adolescente e i tratti corrucciati per non essere stata accettata in Convento, le mani immerse nell’acqua fredda e lo sguardo assente, tramante nuove vie per darsi a Dio. I raggi dell’alba si infiltravano di sbieco sotto agli archi per rincorrersi in giochi di luce fra l’acqua cristallina e le volte a botte del tetto. Frugai la mano in tasca per cercare qualche spicciolo. Voltai le spalle alla Fonte e lanciai in acqua una moneta, impaurendo i pesci rossi ancora assopiti.
I desideri devono rimanere segreti. A distanza di anni, posso però rivelarvi con quale speranza avesse a che fare: che mentre il tempo scorre, la notte fra il
venerdì e il sabato fosse come una vasca, riempita d’acqua precaria ma sul cui fondo conserva gelosa i sedimenti di tutto ciò che resta
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci