Nicoló, Duccio e il senso delle cose: Fortezza Medicea, la necessità di difendersi

Il pomeriggio tardo, sigillato il tempo del dovere e lontani ancora dalla cena, vado spesso a passeggiare. La fortezza è un buon luogo, per qualunque tipo di attività fisica. Percorrendo le mura dalla salita di destra, incontro i ragazze e ragazzi che si danno agli attrezzi. Capita con qualcuno di lanciarsi sguardi furtivi, lui sotto la sua fatica fisica e io sotto il peso dei miei pensieri.

Ogni volta mi chiedo quale sia più difficile da sopportare. Li oltrepasso uno ad uno, le mani in tasca e il passo poco impegnato. Non sono mai stato un grande sportivo: il mio pensiero mi fa compagnia e preferisco farlo fluire, leggero, attraverso il ritmo dei miei passi, invece che sfinirlo sotto ad un attrezzo. Forse ho paura a dargli una tregua: che possa magari non tornare, o di accorgermi che senza di lui sono proprio solo. Di scoprire che sono anche corpo, e che anch’esso può esistere senza essere in continuazione pensato.

 

 

Proseguo verso le attività fisiche più leggere, e incontro un gruppo di yoga. La posizione del guerriero, gamba destra avanti con il ginocchio genuflesso, gamba sinistra stesa e braccia parallele al terreno, mi riporta al nome dello spazio che sto attraversando: Fortezza medicea. Su queste mura i senesi hanno combattuto a lungo per la loro indipendenza, prima di arrendersi al dominio di Cosimo de’ Medici. Inizialmente era stata costruita da Carlo V, imperatore e re di Spagna, non per far fronte a minacce esterne ma per assoggettare la stessa città.

Mi siedo su una panchina, osservo in alto e sotto le mie scarpe i colori delle foglie autunnali. Penso come anche noi talvolta siamo costretti a costruire dei forti interni: non per far fronte a qualche nemico al di fuori, ma per tenere a bada certi parti che se non controllate a vista rischiano di inondarci come un fiume che rompe la sua diga e rade al suolo il paese che attorno a lui è stato costruito. L’ora del tramonto è il momento che mi concedo per guardare queste parti: aprire le porte delle celle, far loro respirare un’ora d’aria. Abbassare le canne dei fucili che per tutta la giornata le hanno sorvegliate a vista.

 

Arrivò un momento in cui la Fortezza venne smilitarizzata: sul finire del XVIII secolo, dal Granduca Pietro Leopoldo. Da quel momento, lo spazio in cui si svolgevano esercitazioni militari fu convertito in giardino, e iniziò a far parte della vita pubblica senese.

Prima o poi anche io riuscirò a fare amnistia: perdonare le parti di sofferenza e conceder loro di tornare a far parte della vita quotidiana. Farle essere presenti alla mattina quando monto la schiuma del latte per il cappuccino, in macchina con la musica alla radio mentre vado a lavoro, a pranzo quando discuto con i colleghi. Allora tante guerre finiranno, e un trattato di pace sarà firmato sulla scrivania della mia anima. Da quel giorno, forse, il tempo del tardo pomeriggio non sarà più dedicato a loro: e chissà se passando non vedrete anche me, sulle mura della Fortezza, a sudare fra un addominale e uno squat.

 

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci