Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
Sulla scrivania, sfoglio il trattato di Hume: dice che la relazione di causa effetto fra le cose non è data altro che dalla nostra abitudine. Dall’eterno pensare che il mondo prosegua così com’è. Sono sempre stato abitudinario, fin da bambino. Anche se non sapevo cosa fossero la causa e l’effetto, vedendo spuntare i primi fiori dai rami spogli, in piedi sul divano per raggiungere l’altezza della finestra, iniziavo a prepararmi ai miei incontri con i cigni. Dovevo portar loro qualcosa da mangiare, questo era certo. I crackers di cui madre mi muniva non erano sufficienti ad ingraziarmeli. Serviva ben altro, per convincerli ad abbandonare il tepore della loro grotta e farli avvicinare all’ennesimo moccioso strillante.
Il cibo della mensa statale era un buon candidato. Non voglio fare troppo il magnanimo, a dire di essermi privato, ogni giorno, dello zoccoletto di pane gommoso. La maestra era impegnata a ostentare sorrisi falsi e “mm” di gusto deglutendo a fatica il merluzzo, quando facevo scivolare il panetto fino alle tasche del grembiule. Ero l’unico bambino che a fine pasto le custodi non rimproveravano di spreco alimentare.
Ai confini del mio mondo ogni ramo era fiorito. Le scorte iniziavano a essere ingenti. Mio padre non usciva più con il berretto, e la domenica indossava la sua tuta più leggera. Dai miei 90cm, mano in quella di babbo e sguardo fiero davanti a me, mi avvicinavo alla fontana della Lizza come chi sa di avere un’opportunità in più. Guardavo da lontano la strage di bambini che non riuscivano ad avvicinare nessun cigno, e con la mano libera spezzettavo il mio tesoro dentro la tasca.
Facevo il gradasso solo nella mia immaginazione: nella realtà, quando arrivavo lì, vuotavo le tasche briciolose sui palmi grassi degli altri bambini e io me ne correvo in alto, a vedere lo spettacolo che avevo creato. Le mani di mio padre mi tenevano stretto sotto le ascelle per farmi sporgere dalla finestrella ricamata di roccia. Sull’acqua galleggiava il pane rubato in un mese. I due signori dello stagno iniziavano a ritenere quei piccoli esseri degni di ammirarli, ed uscivano.
Il rumore dei lunghi colli che infrangevano ripetutamente la superficie dello stagno soppiantava d’improvviso i clacson delle macchine che non trovavano parcheggio e le ali si spiegavano come aquiloni al vento e coprivano l’acqua d’un telo bianco e soffice. Guardavo in basso, compiaciuto: le coreografie acquatiche di cui da sotto il piumone avevo bramato di tornare a godere e gli occhi dei miei coetanei che brillavano increduli. In quei momenti ero un re e i giardini il mio regno.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci
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