Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
“La ferita sul braccio sanguinava e le palpebre faticavano a rimanere aperte sul mondo, quando due braccia mi deposero davanti alla porta del Santa Maria della Scala. Fui raccolto da terra e deposto su un letto fra altri letti, sotto a un tetto dipinto che ampliava e faceva eco ai nostri lamenti. Tre volte al giorno trovavo una scodella sul comodino, che col braccio sano afferravo e cercavo di imboccarmi. Una volta al giorno, una ragazza dalla pelle giovane e gli occhi piccoli e marroni, i capelli raccolti dentro al velo monacale, mi disinfettava la ferita. Posata la garza e le forbici sul comodino, incrociava le dita delle due mani e le labbra le si increspavano in una preghiera per me.
Quando il dolore si attenuò e riuscii a vedere oltre, vidi che alla mia sinistra c’era un altro caduto di guerra: un omaccione dalla testa pelata, nel corpo il ricordo di muscoli vigorosi. Una delle sue ginocchia, non proseguiva oltre: si arrestava come una frase lasciata a metà, come uno spazio che ti aspetti che l’occhio riempia ma rimane solo il vuoto del lenzuolo a dirti che il corpo è mozzato. Durante gli addestramenti ci avevano insegnato ad essere interi: eravamo diventati frantumi d’uomini. Alzatasi dal mio capezzale, la giovane suora si voltava dall’altro lato e pregava anche per lui: affinché un corpo mozzato tornasse a vivere pienamente.
Non ci scambiammo parole, solo sguardi: una mattina lo accompagnai con gli occhi mentre si alzava, si cambiava i vestiti logori e si abituava alla sua nuova camminata con la stampella. La suora, il nostro giovane angelo, disse che era pronto a tornare a casa. Che il suo corpo avrebbe testimoniato per lui, che a malapena parlava, come siamo incompleti senza Dio.
Il mio braccio resistette, e dopo non so quante medicazioni mattutine il dolore si fece più lieve e la ferita risarcì. I suoi occhi piccoli, votati alle altezze del cielo e alla crudezza più spietata della terra, così disabituati a una dimensione intermedia del vivere, si velarono di malinconia. Capii che era l’ultima volta che mi avrebbe medicato, che il giorno dopo sarei uscito da questo grande dipinto angelicato che copriva il dolore dell’umanità. Le parlai. Le chiesi chi è che pregava. Perché adesso avrei dovuto continuare a farlo io, al posto suo. La parola la raggiunse come un’arma a cui non è abituata a far fronte sul suo campo di battaglia. “Sant’Ansano” – sibilò – “Il nostro patrono”. Si fece il segno della croce e si allontanò.
Il giorno seguente venne la maggiora a darmi dei vestiti nuovi e dirmi che ero pronto per tornare a casa. Iniziai a pensare a cosa avrei incontrato fuori: non sapevo se avrei trovato i miei genitori, la mia stanza come l’avevo lasciata un anno fa. La guerra distrugge tutto ciò che abbiamo sempre dato per scontato. Me ne uscii, il corpo integro ma zoppicante dentro. La giovane suora non si fece rivedere. Aveva molte ferite da disinfettare, e la mia era sola una fra le tante. Volli fare due passi, prima di cercare la via verso casa. Mi feci inondare gli occhi dalla meraviglia del Duomo e camminai fino al Fosso di Sant’Ansano.
Lì pregai. Ringraziai il patrono per essere sopravvissuto. Per tornare a casa con tutti gli arti. Ero stato fortunato. Non potevo chiedere altro, e non lo feci. Solo qui posso scrivere, che per lungo tempo pensai e invidiai un po’ quell’omaccione: la cui lacerazione fisica lo giustificava, da allora in poi, a mostrarsi mancante”.
Su questo punto, il testamento di mio nonno era chiaro: il diario sarebbe rimasto a me. Dopo averlo lasciato per lungo tempo in soffitta, oggi lo apro e lo leggo. La sua vita, trattenuta dalle pagine, si spiega nell’aria mattutina di Vallepiatta e come un boomerang le sue parole, rimaste impigliate nelle chiome verdi del tempo, mi accarezzano ruvide in viso.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci