Nicoló, Duccio e il senso delle cose: la pioggia a Siena

«Pioverà anche oggi» penso, o forse pronuncio a voce alta nel dormiveglia, senza rendermene conto, dopo un tuono più forte degli altri che mi ha fatto aprire gli occhi in anticipo rispetto alla sveglia. Questa settimana a Siena sembra il remake della quarantena: la pioggia ci fissa dai vetri della finestra, senza tregua, ammonendo chiunque manifesti il desiderio di uscire senza un bisogno esplicito e dichiarato.

Un’altra giornata passata in casa, a fare i conti con tutto ciò che, quando fuori il tempo è bello, uscendo riesco ad evitare.Torna così anche la lotta con la mia più grande nemica: la signora noia. Il mostro a quattro teste che mi trovo a combattere quando rimango confinato fra le foto della mia infanzia appese a queste mura. Non è abituata, la mia generazione, a viversi la noia. Gli spazi vuoti di impegni e carichi di tempo da spendere. Non vi siamo abituati perché per noi anche una giornata in casa contiene una possibilità infinita di distrazioni: chat di gruppo che non ci danno tregua, la serie nuova su Netflix, una miriade di articoli che pullulano sui social network e che, per il vivere comune, per non rimanere indietro rispetto all’ultima notizia, sembra indispensabile aver letto.

Le ore davanti allo schermo passano veloci e impensate. I nostri neuroni catturati dalla luce e dalla grafica impeccabile dei siti internet fanno la figura dell’esemplare animale maschio davanti alla femmina in calore: non capiscono più nulla, e continuano a fissare non riuscendo mai a scorgere bene cos’è che li tiene così attaccati all’obiettivo. Cosa fa sì che solo lo schermo risalti mentre tutto il mondo fuori scivola sotto un cono d’ombra. Dicevo, ecco, che non siamo abituati a confrontarci con uno spazio senza stimoli. Ad allontanarsi dalla luce artificiale dello schermo e correre il rischio di crearla noi, la luce, attraverso il nostro sguardo sulle cose. Decido che è ora di farla finita di dimenticarsi davanti al computer. Alzo lo sguardo, fisso il bianco di un pezzo di parete senza foto: provo a ascoltare cosa nasce, in me, quando tutto fuori tace.

Mi viene in mente che settembre è un mese strano, in cui bisogna fare i conti con la fine e con l’inizio. Un mese di programmazione, in cui assistiamo all’abbronzatura che si sbiadisce sempre più dalla pelle mentre ci chiediamo quali vestiti vorremmo indossare per questo nuovo inverno. La spensieratezza d’agosto viene sostituita da una rinnovata esigenza di affermare se stessi, di tornare a dimostrare in cosa siamo bravi. Settembre è
un mese sospeso, assieme capitolo riassuntivo e nuovo incipit.

Intanto la pioggia continua testarda a battere sui vetri. Ma adesso, decido di ignorarla: indosso k-way, stivali ed esco fuori. In giardino inizio a danzare, in una specie di preghiera tribale, un’antica supplica alla pioggia di lavarmi da tutto ciò che quest’inverno non vorrei portare con me. Come l’assurda e invisibile dipendenza dalla tecnologia. Il cinismo dei grandi che temo di ereditare. L’imbarazzo verso ciò che non conosco. I propositi alleggeriscono, ci danno la speranza di rinascere, di poterci sbarazzare come certi animali della corazza della stagione precedente. Lo sguardo mi cade in basso, su una pozzanghera. Scorgo il riflesso scomposto della mia sagoma che vi galleggia. Carico le mie gambe come fossero due molle. Con entrambi i piedi vi faccio un salto sopra, deciso, infrangendo in mille schizzi la mia figura stagna.

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci

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